ALESSANDRO VITALE, 10.5.2013
(Original publication: L’Indipendenza, Liber@mente)
Quando le persone sono state condizionate per generazioni a credere che la scelta politica (ossia di chi comanda) su tutto ciò che le riguarda sia l’unica possibile e che tutto sia “bene pubblico”, scelto collettivamente e a contribuzione obbligatoria (tassazione: generalmente scaricata solo su alcuni), è impresa vana ricordare che ci sono state epoche in cui le scelte individuali indipendenti nel loro intersecarsi e nel dar vita a organizzazioni spontanee e volontarie, dominavano e garantivano le convivenze. Affiorano subito, infatti, lo scetticismo e l’incredulità.
Ancor più vox clamantis in deserto è quella di chi cerca timidamente di far notare che – dato che gli uomini sono dotati di sensazioni, capacità di pensiero e di azione solo in quanto individui – è necessario, per la sopravvivenza e la prosperità di ciascuno, che essi siano liberi di imparare, scegliere, coltivare le proprie capacità e di agire in base ai propri valori e alle proprie conoscenze, senza dover obbedire a una comune gerarchia di fini obbligatoria (stabilita dai politici di turno), perché solo questo gioco può generare ricchezza e civiltà. Paralizzare queste dinamiche individuali con decisioni imposte a tutti sotto minaccia dell’uso della violenza (con leggi prodotte a ciclo continuo, regolamentazioni, controlli e sussidi ad alcuni), giustificandole come “beni pubblici”, significa andare contro ciò che è necessario alla stessa vita umana, alla convivenza sociale e alla loro prosperità: che è proprio quello che ci sta accadendo. Ci vorrà molto tempo, dopo lo tsunami dello statalismo, per fuoriuscire da sistemi politici nei quali domina la “statizzazione dell’individuo”, che significa soppressione generalizzata dei diritti individuali, dell’iniziativa indipendente e della libertà di scelta, accompagnata dal far credere che gli uomini siano incapaci di aiutarsi a vicenda e di cooperare.
Più che il ragionamento sulla realtà dell’uomo, forse, potranno fare molto gli effetti evidenti di questa schiavitù (in gran parte volontaria), che sono sotto gli occhi di tutti: la statalizzazione e politicizzazione di tutti i rapporti fra individui – sempre più soli, estranei fra loro, incapaci di aiutarsi, poiché tutto passa in tertium, attraverso lo Stato – una fiscalità distruttiva, una staticità paralizzante (che in comune con “Stato” ha la stessa radice etimologica), una burocrazia attenta solo alle proprie entrate da estorsione, alla sua autoconservazione e alla ricerca spasmodica di giustificazioni ideologiche (sempre più deboli) per il suo operato e per la “necessità” della sua onnipresenza. Anche un bambino si accorge della generale paralisi e della perdita di senso delle attività umane, dell’atrofizzazione del desiderio di personalità libere e autorealizzate, innovative, capaci di scelte decisive per il loro destino, della diffusa dipendenza dallo “Stato-provvidenza” (riassunta nella frase imperante: «E lo Stato dov’è?… (cosa fa?…)», dell’incapacità dei singoli di risolvere autonomamente e accordandosi fra loro i problemi che li riguardano, demandati continuamente ai burocrati, della dipendenza totale da mastodontiche istituzioni ministeriali e dalle loro elargizioni e favori, che trasformano le persone (direttamente o indirettamente) in impiegati e servitori. Ma quel che è peggio è che lo Stato burocratico sta inesorabilmente prosciugando, a causa della sua crescita mostruosa, le fonti di produzione di ricchezza.
Il suo apparato è ormai una zavorra insopportabile per i produttori, dei quali gli apparati statali hanno bisogno per sopravvivere, dato che non producono niente. In questo quadro diventa una constatazione sempre più facile il fatto che i bisogni, anche quelli elementari (sicurezza, sussistenza), sulla soddisfazione dei quali lo Stato moderno ha fondato e giustificato la sua ragion d’essere, non possono essere più soddisfatti. Il desiderio, durato per decenni, di vivere sotto la protezione e con le luccicanti garanzie (autentici specchietti per le allodole) di un’immensa burocrazia, alimentata da continue richieste di intervento e di parlamenti con poteri illimitati, irresponsabili produttori di decisioni politiche obbligatorie per tutti e di leggi su ogni cosa (che distruggono la gamma di scelte degli individui), si sta rivelando una pericolosa illusione e sta portando i Paesi (soprattutto quelli europeo-continentali) alla rovina e all’inevitabile declino di civiltà. Un declino evidente nella distruzione del senso di responsabilità individuale, dell’iniziativa personale, nell’atomizzazione, nella continua distruzione di capacità e di iniziative.
Non c’è allora più alternativa – a meno che non si preferisca sprofondare nella “normalità” della storia umana, ossia lo stato di povertà e la carenza di civiltà – allo sfondamento di questa gabbia ormai insopportabile (perché in tutto simile a un grande ufficio o a una caserma) e il ritorno all’iniziativa individuale, alla concorrenza fra idee, fra gruppi umani che si autogovernano, fra produttori di risorse. La soluzione dei problemi, sempre più complessi, nell’epoca contemporanea richiede la proposta di idee, l’intervento di critiche acute, di un continuo dissenso, di un alternarsi di tentativi ed errori continuamente corretti: ma per far questo ognuno deve essere libero di usare le sue conoscenze e di far valere le sue abilità e capacità creative, volte alla continua scoperta dei bisogni da soddisfare, rigettando la paralizzante paura della libertà che è diventata l’emblema dell’individuo statizzato. Solo questa energia individuale creativa, finalmente liberata, può portare a un completo rinnovamento del modo di pensare e di vivere.
In collaborazione con la rivista Liber@mente