La società aperta e il diritto

GIOVANNI BIRINDELLI, 18.12.14

(Testo, qui con alcuni errata corrige, della lezione di chiusura del corso della Scuola di Liberalismo della Fondazione Einaudi, Bologna 18.12.2014

Pubblicato da Movimento Libertario. Data la lunghezza dell’articolo allego una versione PDF per la stampa)

 

Buonasera. Vorrei ringraziare la Fondazione Einaudi e la sua Scuola di Liberalismo per questo invito, e in particolare Quinto Leprai ed Enrico Morbelli. Io sono qui per sostituire all’ultimo momento il Prof. Carlo Lottieri che non è potuto venire. Non ne sarò minimamente all’altezza quindi vi prego di ricalibrare le vostre aspettative.

Per affrontare il tema della società aperta e il diritto, che è complesso, vorrei iniziare dalla seguente notizia di pochi giorni fa: «Alcune centinaia di taxi hanno bloccato lunedì mattina, dall’alba, le strade fra gli aeroporti Charles de Gaulle e Orly a Parigi per protestare contro il servizio di taxi privati Uber. Per disinnescare la tensione, il portavoce del ministero dell’Interno … ha annunciato che dal 1 gennaio il servizio sarà vietato per legge. “Il servizio è illegale”», ha detto.

La lezione di oggi sarà in gran parte dedicata a cercare di capire il significato di questo termine (“illegale”); la differenza di significato esistente fra esso e il termine “illegittimo”; e infine a dare alcuni spunti per riflettere sulle differenze fra una società basata sulla legalità e una basata sulla legittimità.

Dire che un’azione “è illegale” vuol dire che viola la legge. Non è quindi tecnicamente possibile capire il significato di questa frase se non cerchiamo di rispondere alla domanda “cos’è la legge?”

Tuttavia, prima ancora di cercare di rispondere a questa domanda può essere utile chiarire un paio cose.

La prima è che cercare di dare la nostra individuale risposta a questa domanda, qualunque essa sia, è, dal mio punto di vista, prima ancora che una questione scientifica, una questione di dignità. Coloro che, magari per reverenza nei confronti di un’autorità politica o accademica, o perfino per reverenza nei confronti della costituzione, (e spesso addirittura per simpatia nei confronti di un comico o di una star televisiva magari pagata con soldi cosiddetti “pubblici”, cioè estorti con la violenza o con la minaccia della stessa alle persone), coloro che, dicevo, accettano che il loro agire sia limitato coercitivamente in base a un’idea filosofica di legge che non hanno messo in discussione, non possono sapere se, dal loro stesso punto di vista, sono schiavi o persone libere. Essi sono quindi esposti a una situazione ancora peggiore della schiavitù: la schiavitù inconsapevole. E se io non riesco a vedere dignità umana nella schiavitù, ne riesco a vedere ancora di meno nella schiavitù inconsapevole.

La seconda cosa da chiarire preliminarmente prima di cercare di rispondere alla domanda «cos’è la legge?» è che questa è una domanda scientifica. Questo non significa che per rispondere occorre necessariamente insegnare in un’università. Significa però che nel rispondere dobbiamo cercare (e accettare di essere limitati dalla) coerenza logica astratta. In altre parole significa che non possiamo fare come ci pare a seconda di cosa ci torna più comodo nei diversi casi particolari.

Molte persone, a seconda di cosa torna loro utile nel caso particolare di loro interesse o a seconda delle loro passioni o pulsioni emotive, usano ora un’idea di legge (per esempio una in base alla quale è la legge a derivare dall’autorità) ora un’idea di legge opposta (per esempio una in base alla quale è l’autorità a derivare dalla Legge, nel senso che, nelle bellissime parole di Hayek, l’autorità deve essere rispettata perché -e fino a quando- difende una legge che si presume esistere indipendentemente da essa).

Pensiamo per esempio al genocidio. Se il ministro francese di cui sopra fosse d’accordo sul fatto che il genocidio sarebbe illegittimo anche se un’autorità lo permettesse o addirittura lo attuasse legalmente (e dò per scontato che egli sia d’accordo su questo fatto), egli mostrerebbe di avere un’idea di legge in base alla quale questa è qualcosa (vedremo dopo cosa) che esiste indipendentemente da un’eventuale autorità e dalla sua volontà. Tuttavia, nel momento in cui quel ministro tramite un suo portavoce afferma che da gennaio 2015 Uber sarà illegale, egli sta chiamando col termine “legge” qualche altra cosa (di nuovo, vedremo fra poco cosa) che esiste solo in quanto espressione della decisione arbitraria di un’autorità, non che è indipendente da essa.

Qui c’è quindi una contraddizione fondamentale. In un caso, quello del genocidio, quel ministro adotta un sistema di riferimento in cui è l’autorità a derivare dalla Legge nel senso accennato sopra. Nell’altro, quello di Uber, lo stesso ministro adotta un sistema di riferimento opposto in cui è la legge a derivare dall’autorità. In un caso egli adotta la legge intesa come limite non arbitrario al potere politico. Nell’altro egli adotta la legge intesa come strumento di potere politico arbitrario. Questa contraddizione non è meno grave, su un piano della metodologia scientifica, di quella di coloro che sostenessero la validità del sistema eliocentrico o di quello geocentrico a seconda di quale dei due gli semplificasse i calcoli nelle diverse situazioni particolari. Ma quel ministro è un politico, appunto, non uno scienziato sociale.

Oggi, nel campo delle scienze sociali, questa incoerenza è non solo molto diffusa, perfino e anzi soprattutto fra gli scienziati sociali, ma sistemica: essa sta alla base dello stato moderno stesso. Michel Oakeshott chiama la società libera o aperta nomocrazia (dal greco nomos = legge e kratos = potere) per sottolineare il fatto che in essa l’azione umana è limitata da una legge non arbitraria che esiste indipendentemente dalla volontà di un’autorità e che quindi non esiste in funzione di uno scopo particolare da questa imposto, per esempio un arbitrariamente definito “interesse generale” o “del paese”. Viceversa, egli chiama telocrazia (da greco telos = fine) la società collettivista o totalitaria in cui l’azione umana è limitata dalla legge intesa come provvedimento particolare di un’autorità in funzione dei fini particolari da questa stabiliti e che quindi esiste solo come espressione della sua volontà. Naturalmente, che questa autorità sia la maggioranza dei cittadini, la maggioranza dei loro rappresentanti o un dittatore non fa alcuna differenza.

Dicevo prima che l’incoerenza di cui sopra è non solo molto diffusa, ma sistemica: e che sta alla base dello stato moderno stesso. Oakeshott infatti afferma: «Nessuna di queste due disposizioni di pensiero [la telocrazia e la nomocrazia] è stata esattamente riprodotta nelle attività di qualsivoglia stato europeo, oppure nelle organizzazioni di opinioni che costituiscono i partiti politici. Nei tempi moderni, ogni stato e ogni partito politico ha sentito l’attrazione sia di convinzioni telocratiche che nomocratiche. In effetti, l’Europa moderna ha inventato per sé stessa un vocabolario politico in cui ogni parola ha due significati – uno appropriato per la telocrazia e l’altro appropriato per la nomocrazia. Queste disposizioni di pensiero sono i poli fra i quali le opinioni europee su questa materia si sono inarcate, per così dire, per quattro secoli e mezzo. E io penso che la politica dell’Europa contemporanea, per essere capita, debba essere riconosciuta come il risultato della tensione fra queste due disposizioni». Così Oakeshott.

Ecco, quando dicevo che la domanda “cos’è la legge?” è una domanda scientifica intendevo dire che, qualunque sia la nostra risposta, noi dobbiamo evitare questa tensione, cioè questa contraddizione: dobbiamo ricercare la coerenza astratta delle nostre idee, che è una cosa diversa dalla coerenza fra queste e i nostri comportamenti: la prima richiede rigore intellettuale; la seconda richiede coraggio. Adottare comportamenti che riconosciamo essere in violazione di idee che ci appartengono e che manteniamo intatte, per esempio quando ubbidiamo a un comando dell’autorità che riteniamo illegittimo, è meno grave, a mio parere, che modificare le nostre idee per nascondere e giustificare la nostra codardia, in quanto nel primo caso non scarichiamo dalle nostre spalle il peso della nostra responsabilità morale.

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Ora, qui metterò a confronto due particolari idee filosofiche di legge: la “legge” positiva o fiat (il positivismo giuridico) e la Legge intesa come principio. Queste non sono, naturalmente, le uniche due idee di legge esistenti. Tuttavia prendo in esame queste due per motivi pratici. La prima, essendo l’idea filosofica di “legge” adottata dall’unione sovietica, dal fascismo e dal nazismo, così come dalla costituzione italiana e dall’Unione Europea, la prendo in esame perché è quella che ci riguarda direttamente: quella in base alla quale viene coercitivamente impedito a Uber di offrire un servizio di mercato, per esempio. La seconda la prendo in esame in quanto, dal mio punto di vista, è l’idea filosofica di legge compatibile con la libertà (che definirò oltre).

La “legge” positiva, o fiat, è un provvedimento particolare: una decisione dell’autorità che, sul piano dei contenuti, è perfettamente arbitraria e quindi è uno strumento di potere politico illimitato. Come ricorda Bruno Leoni, «il fatto che i legislatori, almeno in occidente, si astengano ancora dall’interferire in alcuni campi dell’attività individuale – come parlare, scegliere il coniuge, indossare un tipo determinato di abbigliamento, viaggiare – nasconde di solito il crudo fatto che essi hanno effettivamente il potere di interferire in questi ambiti».

Proprio perché la “legge” fiat è uno strumento di potere politico illimitato essa produce necessariamente la contraddizione fondamentale che abbiamo visto sopra: in quanto provvedimento particolare, essa può stabilire tutto e contemporaneamente il contrario di tutto. Può essere qualunque cosa.

Viene spesso fatta l’obiezione che, per esempio in Italia, il limite alla “legge” fiat e quindi al potere arbitrario dell’autorità politica starebbe nella costituzione. Questa obiezione non tiene conto del fatto che la costituzione stessa è una “legge” fiat: quella più alta in grado. Quindi essa stessa è arbitraria, e noi stavamo cercando un limite non arbitrario al potere politico. Per ragioni di economia del discorso, non teniamo conto del fatto che gli stessi articoli della costituzione vengono abitualmente violati dalla “legge” fiat a essa gerarchicamente inferiore (pensiamo al sostituto d’imposta). Il punto centrale è un altro: dato il fatto che una modifica della costituzione richiede una maggioranza qualificata e una procedura particolare, la costituzione rende semplicemente più difficile la legalizzazione della violazione esplicita e dichiarata di un suo articolo. Non la rende impossibile. Violare esplicitamente il principio di uguaglianza davanti alla legge (articolo 3 della costituzione), per esempio, diventa cioè una questione di numeri e di procedure, non di principio.

Questo fatto può essere visto anche da un’altra angolazione. Dato che, in quanto “leggi” positive, gli articoli della costituzione possono essere qualunque cosa, la costituzione di un sistema basato sul positivismo giuridico come lo è quello italiano è lo strumento necessario e sufficiente per violare sé stessa. Quando la “legge” fiat che stabiliva la sospensione del processo penale nei confronti delle cosiddette “alte cariche dello Stato” (nota come “Lodo Alfano”) fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale in quanto violava l’articolo 3 (l’uguaglianza davanti alla legge), quella Corte non disse che il “Lodo Alfano” non poteva essere approvato ma che, per essere approvato, dato che violava l’articolo 3 della costituzione, poteva essere approvato solo come legge costituzionale. In altre parole, violare il principio di uguaglianza davanti alla legge non è un problema, basta che sia violato dalla stessa costituzione che dovrebbe difenderlo, come nel caso della progressività fiscale (articolo 53), la quale, sul piano dell’uguaglianza davanti alla legge, è identica al cosiddetto “Lodo Alfano”. Dove la legge è la “legge” fiat, quindi, la costituzione, la quale viene generalmente vista come il posto più puro, è spesso in realtà il posto più lurido: quello dove vengono inseriti quei provvedimenti che violano esplicitamente e dichiaratamente la costituzione stessa perché è solo lì che possono essere inseriti.

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All’opposto della “legge” fiat, c’è la Legge intesa come principio (da qui in avanti, più semplicemente, la Legge). A differenza della prima, questa non è un provvedimento particolare deciso dall’autorità legalmente costituita, ma una regola generale e negativa di comportamento individuale che deve valere per tutti, stato per primo (ove ci fosse), allo stesso modo; e la cui scoperta e difesa richiede esclusivamente coerenza astratta.

Sia che la sua origine sia vista nella natura (come fa ad esempio Murray Rothbard), sia che sia vista secondo me in modo scientificamente più coerente in un processo spontaneo di selezione di usi e convenzioni di successo (come fa ad esempio Friedrich A. von Hayek), la Legge esiste indipendentemente da un’eventuale autorità e dalla sua volontà. Essa quindi non può essere “fatta”, ma solo scoperta e difesa.

Scoprire e difendere la Legge non è un lavoro facile: se le capacità richieste per decidere la “legge” fiat non sono superiori a quelle richieste per spingere il pulsante di una slot machine (per cui chiunque va bene, perfino i nostri parlamentari), le capacità intellettuali richieste per scoprire e difendere la Legge sono estremamente elevate e includono preparazione, capacità di astrazione e coerenza logica straordinarie, addirittura «erculee» nelle parole di Ronald Dworkin. Questo lavoro di scoperta e difesa della Legge è tuttavia in qualche modo facilitato dal fatto che, dove la legge è la Legge, l’uguaglianza davanti a essa esclude la possibilità di disuguaglianza legale, la quale è invece perfettamente compatibile con la “legge” positiva o fiat. La disuguaglianza legale consiste nel trattare in modo uguale persone che, in base a un determinato criterio, sono state raggruppate nella stessa categoria e nel trattare in modo diverso persone che, in base a quello stesso criterio, sono state raggruppate in categorie diverse (pensiamo alle “leggi” razziali oppure, oggi, alla progressività fiscale). Ciò che aiuta a scoprire e a difendere la Legge è il fatto che questa scoperta e difesa richiedono coerenza astratta applicata esclusivamente a regole negative di comportamento individuale che devono valere per tutti allo stesso modo, senza possibilità di eccezioni fra diversi casi particolari. Se la contraffazione ad opera del gioielliere è illegittima allora è illegittima anche la contraffazione ad opera dello stato, cioè la stampa di denaro fiat da parte delle banche centrali.

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Questa discussione sul concetto di legge ci permette di introdurre il concetto di libertà. Nelle parole di Lord Acton, «La libertà, insieme alla religione, è stata la ragione di buone azioni e il comune pretesto del crimine… Essa è il frutto delicato di una civilizzazione matura. … In ogni epoca, il suo progresso è stato assediato dai suoi nemici naturali: l’ignoranza e la superstizione, la brama di conquista e l’amore per la vita facile, l’uomo forte bramoso di potere e l’uomo povero bisognoso di cibo. … In ogni tempo, gli amici sinceri della libertà sono stati rari e i suoi trionfi sono stati dovuti a minoranze, le quali spesso hanno prevalso associandosi con ausiliari i cui obiettivi erano opposti ai loro. … Nessun ostacolo è mai stato così costante o così difficile da superare quanto la certezza e la confusione circa la natura della vera libertà».

La confusione fra libertà e potere che ha portato alcuni a parlare di una cosiddetta “libertà positiva”, di per sé rende l’idea di quanto alcune persone possano essere lontane da un’idea astrattamente coerente di libertà. Naturalmente, per motivi che qui sarebbe troppo lungo discutere, la libertà può essere coerentemente concepibile solo come concetto squisitamente negativo: legato cioè all’assenza di coercizione di alcuni su altri. Hayek ha definito la libertà come quella condizione dell’uomo in cui la coercizione di alcuni su altri è ridotta il più possibile. Personalmente trovo questa definizione incompleta e ritengo che dall’incompletezza di questa definizione derivino le maggiori contraddizioni di Hayek, quelle che lo hanno portato ad approvare dimensioni e funzioni dello stato significativamente maggiori di quelle compatibili con l’idea non arbitraria di Legge che sta alla base della sua stessa teoria del diritto. Dal mio punto di vista, la libertà è non solo quella condizione dell’uomo in cui la coercizione di alcuni su altri è ridotta il più possibile, ma anche quella in cui tale coercizione è in ogni caso limitata alla difesa della Legge intesa come regola generale e negativa di comportamento individuale valida per tutti, stato per primo (ove ci fosse), allo stesso modo.

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 Questa definizione di libertà e di Legge ci mette teoricamente al riparo dal potere coercitivo arbitrario e illegittimo dello stato. Tuttavia lo fa al costo di introdurre un altro problema teorico. Nella nostra esperienza, infatti, ciò che caratterizza lo stato forse più di ogni altra cosa è il monopolio della violenza e, in particolare, quello della tassazione. La tassazione, tuttavia, in quanto misura coercitiva riservata allo stato, di per sé implica la violazione della Legge per come la abbiamo definita: dove c’è tassazione lo stato può infatti fare qualcosa che se la facesse un privato cittadino sarebbe tranquillamente definita come furto. La società libera sembra quindi essere incompatibile con lo stato, e per gli anarco-capitalisti lo è.

Per ragioni di spazio non entrerò nel dettaglio dei limiti teorici dell’anarco-capitalismo, limiti che dal mio punto di vista derivano dal fatto che esso rende potenzialmente illimitata la violazione, da parte di chi è più forte, dei diritti di proprietà di chi non avesse risorse sufficienti a difenderli e non ricevesse solidarietà in tal senso. Non spiegherò quindi perché, dal mio punto di vista, questi limiti teorici dell’anarco-capitalismo sono ancora maggiori di quelli non piccoli dello stato minimo “classico”, in cui lo stato, attraverso il monopolio della violenza e la tassazione, viola la Legge, anche se lo fa esclusivamente in funzione della difesa della medesima, e comunque il meno possibile.

Tuttavia vorrei segnalare che fra lo stato minimo “classico” (il quale corrisponde a una frazione infinitesima dello stato attuale e soprattutto sarebbe espressione di un paradigma, quello della libertà coerentemente intesa e della società aperta, che è opposto a esso) e l’anarco-capitalismo c’è un’ulteriore soluzione “intermedia” che combina elementi di entrambi gli approcci e che, se da un lato consente di eliminare i problemi teorici dell’anarco-capitalismo (che a mio parere sono i maggiori), dall’altro consente di ridurre significativamente i limiti principali dello stato minimo “classico”: il monopolio della violenza e la tassazione, che è una violazione della Legge, anche se finalizzata esclusivamente alla sua stessa difesa.

Per semplicità chiamo questa “soluzione intermedia” tra anarco-capitalismo e stato minimo “classico”, stato minimo “ulteriormente indebolito”. Ci sono due elementi che distinguono questo dallo stato minimo “classico” e che quindi riducono l’illegittimità di quest’ultimo, portandolo più vicino a una situazione di anarco-capitalismo.

Il primo elemento, è il fatto che lo stato minimo “ulteriormente indebolito” non avrebbe il monopolio della violenza, ma solo il monopolio della violenza di ultima istanza, cioè di quell’azione coercitiva che, avvenendo entro i limiti della Legge intesa come principio e solo per la sua difesa, è per così dire “lasciata scoperta” dalla libera iniziativa privata (per esempio attraverso l’azione di privati cittadini, di società di sicurezza private, ecc.). In questo modo, da un lato, lo stato stesso ci penserebbe due volte prima di fare ciò che ha fatto a Stefano Cucchi per esempio, oppure nella Scuola Diaz di Genova (in quanto ci sarebbe qualcuno che avrebbe la capacità e la possibilità di reagire per la difesa della Legge che persone al suo interno hanno violato). Dall’altro, chi non avesse i mezzi per difendersi dall’aggressione del più forte potrebbe comunque avere un livello arbitrariamente stabilito come “minimo” di protezione e il principale limite teorico dell’anarchismo di mercato sarebbe così risolto. Esso sarebbe tuttavia risolto a caro prezzo, quello della violazione della Legge: infatti, l’azione coercitiva di ultima istanza da parte dello stato (e più precisamente quella che eventualmente non venisse finanziata attraverso contributi volontari) verrebbe finanziata attraverso la tassazione, che è non solo un crimine ma anche un privilegio positivo dello stato.

Il secondo elemento che distingue lo stato minimo “ulteriormente indebolito” dallo stato minimo “classico” è la compensazione dei privilegi positivi del primo, e in particolare il privilegio della tassazione e quello del monopolio della violenza di ultima istanza, con privilegi negativi. In particolare, con la violazione sistematica della libertà individuale di coloro che scelgono liberamente di lavorare per lo stato, violazione sistematica che potrebbe essere fatta aumentare all’aumentare delle dimensioni dello stato, così da creare un ulteriore fattore dinamico di contrasto alla naturale tendenza di ogni stato ad espandersi (“effetto elastico”). Nel nostro “mondo alla rovescia”, noi troviamo normale e accettiamo che lo stato per esempio possa violare la nostra privacy; e troviamo altrettanto normale che la privacy di chi controlla e gestisce lo stato sia inviolabile. Ecco, quando parlo di privilegi negativi dello stato mi riferisco per esempio, in un contesto in cui lo stato non può in alcun caso violare la privacy dei cittadini, a situazioni in cui la privacy e la libertà individuale di chiunque scelga liberamente di lavorare per lo stato sia sistematicamente violata con sistemi molto più intrusivi non solo delle intercettazioni ma anche dei cosiddetti braccialetti per detenuti. L’idea di privilegi negativi a carico dello stato e di chi sceglie liberamente di lavorare per esso non è aliena alla tradizione filosofica liberale. Hayek stesso, pur non riferendosi alla violazione della libertà individuale di chi sceglie liberamente di lavorare per lo stato, sostiene per esempio che «possiamo avere o un parlamento libero o un popolo libero, non tutti e due insieme». Questa idea dei privilegi negativi per lo stato e per chi sceglie liberamente di lavorare per esso non è aliena nemmeno alla tradizione giuridica occidentale: la sentenza The New York Times Company vs. L. B. Sullivan della Corte Suprema degli Stati Uniti (1964), che fu un punto di svolta epocale (anche se insufficiente) nella difesa della libertà di espressione negli USA, stabilì che i requisiti per il reato di diffamazione (“reato” che sarebbe discutibile di per sé, ma non è questo che mi interessa discutere qui) dovevano essere molto più stringenti nel caso di diffamazione contro pubblici ufficiali rispetto al caso dei privati. In questo modo la Corte Suprema USA rese molto più difficile per i pubblici ufficiali perseguire un privato cittadino per diffamazione di quanto lo fosse per un privato cittadino perseguire un altro privato cittadino per lo stesso reato.

A questi due elementi va poi aggiunto un terzo elemento che, pur essendo incluso nella difesa della Legge intesa come principio, viene a volte trascurato. Si tratta della difesa coerente del principio di autodeterminazione: infatti il processo di competizione istituzionale che tale difesa produrrebbe sarebbe in grado di produrre forze spontanee che faciliterebbero l’allontanamento da una situazione in cui ci sia un unico stato minimo “statico” e anzi creerebbero una significativa spinta nella direzione di uno stato minimo sempre più piccolo e debole, sostanzialmente per le stesse ragioni per cui la competizione tende a mettere fuori mercato i produttori inefficienti.

Ora, anche se ci trovassimo d’accordo su questa o su altra “soluzione intermedia”, o più in generale su ogni altra soluzione più o meno imperfettamente compatibile con la libertà, avremmo fatto, dal nostro punto di vista, solo il primo passo del lungo cammino nella direzione di una società libera. Il passo immediatamente successivo sarebbe quello di studiare una soluzione strategica che, partendo dalla situazione totalitaria attuale, consentisse di muoversi nella direzione della società libera in modo necessariamente pacifico e non violento. Non affronterò qui questo tema. Mi limito a ricordare che esistono diversi approcci strategici, alcuni gradualistici e altri non gradualistici, entrambi coi loro pregi e difetti, sul piano di principio e/o su quello della loro efficacia; e che fra gli approcci gradualistici occorre distinguere fra il gradualismo in teoria (che nelle parole di William Lloyd Garrison significa spesso «perpetuità in pratica») e il gradualismo in pratica. Questo del processo di transizione pacifica da una situazione totalitaria come quella attuale italiana a una situazione che sia meno lontana dalla società libera è forse una delle aree meno esplorate e in cui c’è più bisogno di studio.

*   *   *

Avvicinandomi alla chiusura di questo intervento, vorrei ricordare per un attimo il punto da cui ero partito. In apertura avevo infatti ricordato che l’obiettivo di questa lezione era essenzialmente quello di capire la differenza fra i termini “legalità” e “legittimità” e di dare alcuni spunti per riflettere sulle differenze fra una società basata sulla legalità e una basata sulla legittimità.

Da quanto discusso fin qui, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere sufficientemente chiaro che la legalità è il rispetto della “legge” positiva o fiat, e quindi dello strumento di potere politico arbitrario e illimitato di cui l’autorità, in una società totalitaria e collettivista come quella italiana attuale, dispone per conseguire i suoi obiettivi particolari. Dovrebbe inoltre essere altrettanto chiaro che la legittimità è il rispetto della Legge intesa come principio, cioè come regola generale e negativa di comportamento individuale che esiste indipendentemente da ogni autorità e che è valida per tutti, stato per primo (ove ci fosse), allo stesso modo. Questa è il limite non arbitrario al potere politico e quindi è l’unica idea di legge che è compatibile con una società aperta in cui ciascuno, purché agisca all’interno di questa Legge, è libero di perseguire i propri obiettivi individuali senza essere costretto in alcun modo a contribuire al raggiungimento di obiettivi “superiori” quali un arbitrariamente definito “interesse generale” o “del paese”.

Nella pagina Facebook della Scuola di Liberalismo ho notato l’immagine della pillola rossa e della pillola blu del film The Matrix. Quell’immagine è molto vicina alla situazione attuale. Parlavo in apertura della schiavitù inconsapevole: a differenza degli schiavi neri d’America, per esempio, coloro che in The Matrix dormivano nelle bare di vetro mentre le macchine succhiavano loro l’energia, non erano consapevoli della loro condizione di schiavitù. Prendendo la pillola rossa non solo acquisivano consapevolezza della loro condizione ma contemporaneamente, con dolore, ne uscivano, mentre noi, leggendo gli economisti della Scuola Austriaca e i filosofi liberali classici e libertari, possiamo acquisire consapevolezza della nostra condizione e quindi organizzarci in diversi modi per migliorarla molto, per esempio andando a vivere in paesi dove la libertà sia meno devastata di quanto lo è in Italia: ma non possiamo uscirne totalmente. Per farlo, c’è bisogno di aggredire politicamente, e non solo intellettualmente, il positivismo giuridico, che non è un problema solo italiano purtroppo.

Nella nostra situazione, la scelta fra pillola rossa e pillola blu può essere letta come quella fra mercato delle idee e imposizione violenta e gerarchica del pensiero unico. Noi viviamo in uno stato che, attraverso i cosiddetti “reati” di opinione tipo la cosiddetta “apologia di reato” (“reati” resi possibili dall’idea positiva di “legge”), persegue le persone per le loro idee quando queste sono in contrasto coi comandi arbitrari dell’autorità. Viviamo in uno stato che, a partire dai primi anni di scuola, impone il culto della legalità, confidando nel fatto che noi, ignari della distinzione fra “legge” fiat e Legge, non sappiamo che è proprio quel culto che ha permesso i peggiori orrori del ventesimo secolo, a partire dalle “leggi” razziali, dall’olocausto e dall’apartheid, e che oggi produce una pressione e un’oppressione fiscali illimitate e giustificate, di nuovo, solo sulla base della loro legalità e sopprimendo con la forza ogni considerazione sulla loro legittimità: è di qualche settimana fa la notizia che un imprenditore è stato condannato a una sanzione di un milione di euro per aver sostenuto che, dato il livello di pressione fiscale, l’evasione fiscale non sarebbe a suo parere un reato grave. Viviamo in uno stato che, attraverso per esempio il reato di vilipendio del Presidente della Repubblica, persegue le persone per fare ciò che in una società libera sarebbe vista come una delle virtù principali di una persona: criticare e attaccare verbalmente anche in modo scomposto lo stato e le sue massime istituzioni. Faccio notare che il Sedition Act, una misura nella sostanza analoga a quella dell’istituzione del reato di vilipendio e che rappresenta il punto più basso mai raggiunto dalla libertà di espressione negli Stati Uniti, è del 1798 e decadde nel 1801. Giusto per avere un termine di paragone, da noi il cosiddetto “reato” di vilipendio c’è ancora oggi: esso è stato introdotto nel 1889 nel Codice Zanardelli e fu naturalmente confermato e rinforzato dallo stato fascista. È di sei giorni fa la notizia di un giovane di 33 anni condannato a 5 mesi e 10 giorni di reclusione «per offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica», un persona, incidentalmente, che nel 1956, all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest, si pronunciò come tutti sappiamo, offendendo persone che non erano protette da alcun privilegio. Forse, per capire la natura del cosiddetto “reato” di vilipendio, può essere utile ricordare le parole del presidente Thomas Jefferson il quale, appena insediato, perdonò tutti coloro che furono condannati sotto il Sedition Act. Egli disse: «considero quella legge una nullità assoluta e palpabile come se il Congresso ci avesse ordinato di inginocchiarci e adorare un’immagine dorata. E ritengo che fosse mio dovere impedire la sua esecuzione in ogni stadio, come lo sarebbe stato l’aver salvato dalla fornace coloro che vi fossero stati gettati per aver rifiutato di adorare quell’immagine». Purtroppo noi non abbiamo un Thomas Jefferson, tutt’altro, e, al contrario del Sedition Act che durò solo tre anni, da noi il “reato” di vilipendio dura da 125 anni and counting...

Per sopravvivere, lo stato totalitario ha bisogno di creare e mantenere il culto di sé stesso e delle sue istituzioni, della legalità e della virtù dell’obbedienza fiscale, quindi di sopprimere il mercato delle idee, quello delle opinioni e la libertà di espressione (che a questo scopo da noi viene inserita in costituzione). La sua stessa esistenza dipende in gran parte dal successo con cui il pensiero unico che lo giustifica nella sua forma attuale viene imposto con la violenza. Scegliendo la pillola rossa, cioè leggendo i liberali classici, i libertari e gli austriaci, noi non scegliamo la verità al posto del falso: scegliamo il mercato delle idee al posto del pensiero unico, in altre parole scegliamo di essere liberi di farci la nostra opinione comparando il paradigma del totalitarismo con uno opposto e alternativo a esso.

Ci sono sicuramente stati momenti storici in cui la libertà è stata soppressa in modo fisicamente più violento di quanto lo sia oggi in Italia, per esempio. Tuttavia la strada che porta alla schiavitù non è mai stata così priva di ostacoli culturali e ideali. Il totalitarismo moderno, a differenza di quello vecchio, non sta in piedi nonostante le persone perbene: sta in piedi grazie a esse, e soprattutto grazie alla gran parte dei cosiddetti “intellettuali”. Di conseguenza non c’è praticamente alcuna resistenza intellettuale e ideale al suo avanzamento. Resistere alla tirannia, oggi, vuol dire porsi in contrasto culturale con le persone perbene e quindi in molti casi essere socialmente isolati. Ma una parte importante del vantaggio di stare coerentemente dalla parte della libertà sta davvero, io credo, nell’integrità del proprio onore. Nell’arrivare alla fine della propria vita con la serenità di sapere almeno di aver riconosciuto il male, e di non averne fatto parte, e magari anche di aver fatto qualcosa per contrastarlo. Quindi il consiglio che, se fossi nella posizione di farlo (cosa che non sono), mi sentirei di dare a voi che state finendo questo corso sulla libertà, è quello di continuare a stare dalla sua parte; di respirare a pieni polmoni; di continuare ad andare alla ricerca della coerenza nella vostra personale idea di libertà e quindi di Legge; di vedere i vostri dubbi come opportunità di crescita intellettuale; di avere curiosità; di sbagliare; di non sacrificare di default l’estro alla precisione, il vostro eclettismo alla specializzazione (che è una cosa magnifica ma non quando, imposta collettivamente quasi come valore morale, devasta l’individualità delle persone); di continuare a confrontarvi e a esprimere le vostre idee senza paura, anche se antitetiche a ciò che viene dato per scontato, al cosiddetto “consenso acquisito” e a ciò che a chi detiene ed esercita un potere politico illimitato piace ascoltare.

Grazie.

2 thoughts on “La società aperta e il diritto

  1. Agostino December 19, 2014 / 4:35 pm

    Bravissimo!!!!! Sottoscrivo ogni singola parola!!!!

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