Perché l’anarcocomunismo è destinato al fallimento

LUCA FUSARI, 17.1.2012

(Pubblicazione originale: Movimento Libertario)

La critica da parte degli anarcocapitalisti nei confronti di una società collettivista non si limita solamente alla mera questione dell’assenza di volontà e/o di libertà d’adesione in essa. Se così fosse, tale genere di critica sarebbe valida solo nei confronti di una società collettivista statuale, creando di fatto un controsenso logico nel caso di comunità anarcosocialiste ed anarcocollettiviste, le quali manifestano un funzionamento interno differente rispetto alla pratica proposta dalla visione anarcocapitalista.

Nel caso di comunità anarchiche collettiviste, essendo queste costitutivamente basate sulla volontarietà iniziale dei loro aderenti membri, esse dovrebbero essere non biasimabili da parte dei libertari anarcocapitalisti in quanto esse sarebbero già forme realizzate di “anarcocapitalismo”. In primo luogo questa linea di ragionamento svuoterebbe il termine “anarcocapitalismo” dei suoi reali significati specifici e lo ridurrebbe a mera tattica finalizzata alla realizzazione di una società di tipo anarcosocialista.

Inoltre, oltre a non trovare apprezzamenti presso gli anarcocapitalisti né tra gli anarchici socialisti, questa linea di ragionamento non chiarisce neppure le differenze presenti tra l’anarcocapitalismo e l’anarcosocialismo/anarcocomunismo, differenze che emergono sia in relazione alle finalità che in relazione alle loro rispettive forme di organizzazione.

Questo tipo di ragionamento risulta confuso e capzioso: non favorisce una corretta rappresentazione dell’anarcocapitalismo (e del libertarianism anglosassone in generale) né le divergenze culturali tra questo e l’area anarcosocialista (e sue relative correnti interne) anche per quanto riguarda i modelli comunitari prospettati.

Il problema del socialismo e del collettivismo è un problema di negazione dell’azione umana individuale, la quale invece è difesa e riconosciuta da parte dei libertari individualisti. L’azione umana individuale comporta una sua spontaneità di scelte individuali sul piano temporale tese al soddisfacimento delle proprie necessità nel rispetto dei diritti naturali di vita, proprietà e responsabilità individuale.

La negazione di fondo, sia in una comunità anarchica che in un’organizzazione statuale adottante una visione ideologica socialista, dei diritti naturali degli individui comporta l’obbedienza ad un dogma innaturale di tipo collettivo: l’egualitarismo tra membri a livello di mezzi e beni fruiti. Questo dogma comporta una forma gestionale opposta a quella basata sulla proprietà e quindi antitetica a quella anarcocapitalista.

Come puntualizza Rothbard in un suo famoso articolo, l’anarcocapitalismo non è sinonimo di anarcocomunismo. Esso non è né una via, né una forma, né un mezzo per realizzare tale secondo scenario. L’anarcocapitalismo è tutt’altra modalità di concezione della realtà e della società in ragione dei princìpi del capitalismo basato sui diritti naturali.

Nella sua dimensione teorico-economica, esso si basa sul metodo prasseologico proprio della Scuola Austriaca di economia e sulla conseguente analisi del processo di libero mercato. Da tale visione dell’economia deriva un modello di funzionamento enclavistico, il quale risulta essere inevitabilmente differente e non paragonabile a quanto promosso dall’anarchia socialista.

La principale differenza sul piano economico tra i due modelli di anarchia è la questione fondamentale del calcolo misesiano. La fallacia economica del modello socialista così come descritto da Mises all’interno dei suoi saggi (ad esempio in Economic Calculation in the Socialist Commonwealth e Socialism), non si limita solo al modello organizzativo coercitivo statale del socialismo reale di tipo sovietico.

Le sue analisi possono infatti essere estese da un piano macro ad uno micro-comunitario, e quindi anche ai modelli di organizzazione anarcocomunisti. Pur ritenendo in generale che ciascun gruppo di individui in una realtà post-statuale abbia la scelta di poter decidere volontariamente a quale modello aderire nel rispetto del principio di non-aggressione, risulta evidente come solo un sistema gestionale anarcocapitalista, legato cioè al rispetto dei diritti naturali dell’individuo (tra i quali il rispetto della proprietà privata), possa costituire la base per un corretto calcolo economico, garantendo di conseguenza agli individui un alto potenziale di benessere e una sua maggior stabilità e durata nel tempo.

In una comunità anarcocomunista ciò non è riscontrabile né possibile, in quanto in assenza dei diritti di proprietà e in regime di uguaglianza sociale forzata (seppur ad iniziale adesione volontaria), i problemi legati all’uso delle risorse emergerebbero in modo drammaticamente analogo ad un sistema a pianificazione socialista coatta di tipo statale.

Anzitutto quale sarebbe l’utilità per ciascun individuo nel cedere i propri beni personali alla comunità? Non si comprende come i nuovi beni possano venir prodotti laddove, in regime di estesa comunione di beni, le decisioni, le priorità e le scelte di soddisfacimento dei bisogni sarebbero delegate all’iniziativa del collettivo.

Chi o cos’è questo collettivo? Come mai esso dovrebbe risultare “più anarchico” rispetto alla decisione individuale? A ben vedere vi è una contraddizione logica sostanziale in questo tipo di sinistra “anarchica” la quale vede una persona come “libera” solo se vive all’interno di un gruppo collettivo che deve prendere decisioni al suo posto.

Dove sono la libertà, la responsabilità e l’autonomia individuale in tutto ciò? Gli anarchici collettivisti ovviamente non si pongono tali basilari domande sulle loro contraddizioni, preferendo illudersi che vivere in un sistema comunitario egalitario-collettivista possa essere la “via della liberazione dell’uomo dalla fatica e dal dolore”.

Peccato che in una simile realtà l’adozione di scelte collettive finalizzate alla gestione dell’intera comunità comporti la sostanziale impossibilità di generare ricchezza e benessere, producendo solo una dispersione/dissoluzione di proprietà individuale e una sua paradossale accumulazione totemica collettivista.

Quest’ultima peraltro comporta il realizzarsi di una forma di monopolio apparente della comunità sulla proprietà che è in contrasto con la tesi di fondo antiproprietaria della comune stessa. “Apparente” in quanto in ogni caso, anche all’interno di una comune collettivista, i beni esistono e, venendo usati, vengono acquisiti giusnaturalmente dal singolo utente (il loro uso costituisce di fatto una forma di proprietà imprescindibile ed ineliminabile in riferimento all’azione dell’uomo).

Semmai, data l’assenza di un chiaro proprietario, ciò che non è chiaro è chi dovrebbe usare tali beni e con quale criterio questi dovrebbero essere usati all’interno della comune. Inoltre, in assenza di un sistema di produzione della ricchezza non si può garantire un sufficiente status di benessere ai membri interni della comunità.

Infatti, data la scarsità di risorse disponibili, tale sistema produttivo implicherebbe necessariamente una disuguaglianza nella loro distribuzione. Questo sarebbe in contraddizione con l’egualitarismo idealmente invocato come caratteristica formale a livello fondativo, costitutivo ed organizzativo da parte della comune.

Un ulteriore problema è la questione del sistema dei prezzi dei beni che in una società anarcocomunista, al pari di una società sovietica, non esisterebbero. I beni non avrebbero un loro proprietario e un loro prezzo di mercato in quanto ciò non sarebbe necessario in ragione sia dell’avvenuta collettivizzazione dei beni e dei mezzi di produzione, sia del rispetto dei precetti socialisti contrari alla disuguaglianza della ricchezza (quindi anche del reddito e della moneta detenuta dal singolo come sua proprietà disponibile).

Ergo è possibile immaginare che in una società anarchica antiproprietaria lo scambio di beni si basi sulla pratica del baratto che di fatto, a causa del problema della doppia coincidenza, limita ulteriormente il soddisfacimento dei bisogni dei suoi membri rispetto all’uso di una moneta-merce di scambio.

Il baratto, inoltre, implica scarsa redditività e un margine di profitto praticamente nullo, costituendo così la premessa per uno scambio in perdita e per una povertà diffusa e stagnante (può infatti essere utile ricordare che il profitto è la base necessaria per avere un risparmio e in prospettiva la possibilità di realizzare un investimento produttivo).

Con l’assenza della creazione del capitale necessario per nuovi investimenti produttivi non solo non vi può essere crescita economica ma neppure un equilibrato soddisfacimento delle richieste di tutti i membri della comune. Come Mises ha dimostrato, in assenza di un sistema libero dei prezzi e di libere decisioni individuali risulta impossibile la realizzazione di un corretto calcolo economico.

Di conseguenza risulta assai difficoltosa qualsiasi produzione di ricchezza e, più in generale, la possibilità di investimenti economicamente sostenibili nel tempo. Questo implica altri problemi non presenti in una enclave anarcocapitalista grazie al fatto che quest’ultima è basata sul rispetto dei diritti naturali di proprietà e del libero arbitrio degli individui che partecipano al mercato.

In una comune socialista invece, la ricchezza in essa presente viene redistribuita ai suoi membri o molto più probabilmente è accumulata in attesa di un suo presunto uso collettivo. Altra questione che contraddistingue libertari anarcocapitalisti dagli esponenti anarcosocialisti è quindi la questione della fruizione dei beni.

Gli anarcosocialisti ritengono che la fruizione dei beni possa avvenire solo mediante una forma di redistribuzione conseguente ad una scelta collettiva. Essi si illudono che dopo la collettivizzazione della ricchezza (da loro percepita marxianamente ed escatologicamente come un vincolo sovrastrutturale da cui liberarsi), solo il sistema democratico interno alla comunità possa correttamente stabilire la fruizione e allocazione delle risorse comuni.

In realtà, tale forma di pianificazione collettiva su base democratica non favorisce un corretto calcolo economico. A torto, gli anarchici collettivisti vedono i libertari anarcocapitalisti come i fautori di una modalità di organizzazione della vita di tipo autoritaria in ragione della loro diffidenza verso la pratica democratica dai primi esaltata.

Ponendo l’egoismo del singolo individuo nelle sue scelte individuali, i libertari individualisti riconoscono l’esistenza di un marginalismo soggettivo nelle preferenze. È grazie a questo marginalismo che si genera un ordine spontaneo naturale basato sulla proprietà privata senza passare per la democrazia come forma di organizzazione sociale.

In realtà, proponendo la collettivizzazione dei beni della comunità e in seguito il voto democratico, sono proprio gli anarchici collettivisti coloro che pongono le premesse per un ordine sociale interno di tipo piramidale e monopolistico, in quanto privo di effettiva libertà di scelta e rappresentanza da parte degli individui.

Il problema di chi stabilisce la produzione della ricchezza in una comunità anarchica socialista è la vera questione focale che gli anarchici socialisti tendono a non spiegare, preferendo dibattere di aporie ideali quali la democrazia o il solidarismo del mutuo soccorso collettivo come unica risposta a tutti i problemi.

Ma se in una società anarcocapitalista ogni proprietario ha la possibilità di decidere singolarmente e volontariamente ciò che più è utile al fine di produrre ricchezza per sé stesso (e di riflesso per gli altri attraverso gli scambi volontari e il mercato attraverso la domanda e l’offerta), in una realtà anarcosocialista tale possibilità è del tutto assente al di là del retorico appello alla consensualità e alla volontarietà collettiva.

In assenza dei diritti di proprietà sui propri beni, appare evidente come le scelte prese in una società comunista seguano una ratio collettivista: una regola del branco, della giungla o della maggioranza che dir si voglia. Questo comporta il manifestarsi al suo interno di conseguenze economiche che rientrano nella categoria della tragedia dei beni comuni.

Questo fatto è ulteriormente confermato dal ricorso allo strumento decisionale democratico. Sul piano economico, a causa della collettivizzazione delle decisioni prese sul piano produttivo-redistributivo, in una comune socialista non può esservi né un concetto di risparmio, né una priorità prasseologica individuale, né la possibilità di soddisfare collettivamente e contemporaneamente tutte le varie preferenze presenti nei membri della comunità.

Tenendo presente che le risorse disponibili nella comunità sono in sé limitate in ragione anche del loro uso condiviso, vi è una limitazione d’uso e di scelta disponibile. Una comunità anarchica socialista in ragione delle sue inefficienze produttive comporta un rapido processo di omologazione dell’offerta interna di beni disponibili (con relativo impoverimento qualitativo e di conseguenza quantitativo).

In una società basata su un sistema collettivista è quasi inevitabile che politicamente si realizzino al suo interno due forme di governance alternative o consecutive tra loro in tal ordine: democrazia e autoritarismo. La prima opzione, implica a sua volta due tipi di problemi/contraddizioni che tendono di fatto a negare a priori la precondizione del rapporto di uguaglianza formale interna tra i membri della comune socialista:

  1. la realizzazione di un rapporto tra maggioranza e minoranza interne in ragione delle questioni da votare, costituendo a parità di voto un problema di scelta di indirizzo in virtù dell’uguaglianza formale dei membri, del loro rapporto di mutua dipendenza e della necessità di ottenere un consenso unanime (l’unanimità è scenario assai improbabile in ragione anche delle condizioni di vita complessivamente non ottimali oltreché innaturali tese a produrre conflittualità interne sulle decisioni da compiere);
  2. l’opportunità di delegare per via democratica a personalità rappresentative della comunità anarcosocialista il compito di decidere cosa sia bene per tutti.

Risulta evidente come l’uguaglianza iniziale dei membri venga a rompersi in ragione di una uguaglianza superiore assegnata agli altri (degna de La Fattoria degli animali di Orwell). Rispetto ai rappresentanti eletti della comune i loro elettori risultano subordinati su piano gerarchico, decisionale e sovrastrutturale.

Il ricorso allo strumento decisionale democratico amplifica e certifica ulteriormente la perdita di libertà d’azione delle persone. È comunque assai probabile che, presto o tardi, l’uso delle risorse condivise vada a beneficio esclusivo di coloro i quali sono maggiormente detentori dell’uso della forza diretta o agenti politicamente a nome della comune.

Tale scenario autoritario verrebbe a realizzarsi inevitabilmente all’interno di una società anarcocomunista, anche al di là della messa in atto di una iniziale pratica di democrazia interna. L’uso della violenza indiretta (ad esempio l’uso ed abuso della posizione dominante mediante elezione interna per il controllo delle risorse per quanto riguarda le scelte proposte o decise) o diretta (ad esempio la mera fruizione violenta arbitraria delle risorse a danno degli altri utenti) è la conseguenza istituzionale della mancanza di rispetto dei diritti naturali di proprietà di ciascun membro all’interno della comunità.

Entrambe le prospettive politiche gestionali risultano sostanzialmente direttamente o indirettamente (nei tempi e nei modi) autoritarie e anti-egualitarie. Inoltre, sono paradossalmente maggiormente vincolanti e coercitive anche sul piano economico rispetto alla gestione di una enclave con una visione anarcocapitalista individualista, dove ogni individuo agisce responsabilmente in base ai legittimi diritti di proprietà.

Una società anarcocapitalista produrrebbe l’ordine spontaneo del libero mercato cosa che un ordine democratico non farebbe[1]. In virtù di ciò, non vi sarebbe un potere politico egemonico in grado di imporre e decidere per tutti l’uso di ricchezze non disponibili. Tali proprietà sarebbero gestite dai singoli individui nell’ambito dei loro legittimi diritti di proprietà.

Appare quindi evidente come in una società anarcosocialista/anarcocomunista vi sia un’autorità decisionale implicita: una specie di soviet della comune anarchica. Questa è costituita da una o più persone all’interno della comune, la quale/i quali possono decidere arbitrariamente la gestione collettiva delle risorse e dei beni per tutti gli altri membri indipendentemente dall’iniziale volontà d’adesione dei membri medesimi.

A differenza di un Cda di un azienda privata attiva in una realtà anarcocapitalista, dove solo i soci azionisti sono chiamati a rispettare le decisioni di cui sono volontariamente responsabili, l’autorità decisionale presente in una realtà anarcocollettiva sarebbe unica e vincolante per l’intera comunità, costituendo un monopolio politico implicito e intrinseco con la funzione della comune stessa.

Con simili premesse, proprio come il comunismo di Stato (socialismo reale) non è mai stato il “paradiso dei lavoratori e del popolo” ma più che altro una dittatura inevitabilmente di tipo militarista e brutale (in quanto basato sull’esercizio dell’uso della forza per impedire la spontanea azione umana giusnaturale), così anche la realtà anarcocomunista è destinata inevitabilmente a degenerare in tempi ancor più brevi in simili forme brutali di tribalismo violento.

In una comunità anarcocomunista la disponibilità dei beni sarebbe ancor più limitata per ovvie ragioni di dimensioni della stessa, e il loro uso legato all’arbitrarietà dell’uso della violenza. È assai probabile che i soli individui detentori della forza o della possibilità per via democratica interna di decidere su tutti gli altri beneficerebbero di tali risorse collettivamente accumulate o gestite.

Si assisterebbe quindi ad una disponibilità di risorse visibilmente ineguale a fronte della già scarsa ricchezza redistribuita e non più adeguatamente prodotta a causa dell’impossibilità di un corretto calcolo economico. Di fatto, nel tempo, una comunità socialista volontaria è destinata a diventare inevitabilmente sempre più coercitiva e disuguale nei confronti dei suoi membri aderenti, negando in questo modo la sua idealista premessa di partenza.

In assenza di un sistema di tipo capitalista capace di produrre beni da porre sul libero mercato, la comune non è in grado né di produrre né di reperire con continuità adeguate risorse e beni per poter operare gli scambi nel tempo anche al suo esterno. Questa impossibilità da parte della comune di mettere in atto forme pacifiche di libero scambio acuisce ulteriormente la difficoltà di garantire adeguati standard di redistribuzione della ricchezza entro la comunità stessa in rapporto alla domanda interna (questo anche in assenza di un uso di una sana moneta come bene di scambio universale e mezzo di pagamento per i singoli beni marginalmente fruiti).

Rispetto alle enclavi anarcocapitaliste (le quali possono operare tra loro e verso le altre comunità in pacifica convivenza in virtù del vincolo dell’assioma di non-aggressione libertario), le realtà anarcocomuniste sono destinate ad implodere o a trasformarsi in una seria minaccia per le altre enclavi confinanti a causa del loro inevitabile declino economico e del non rispetto dei diritti naturali ritenuti essenziali per gli anarcocapitalisti delle altre enclavi (la proprietà privata, in primo luogo).

Per non sparire, le comunità anarcocomuniste tenderebbero ad accentuare ancor di più l’autoritarismo demo-burocratico al loro interno e la pianificazione collettiva delle risorse. La necessità di reperire esternamente risorse e capitali non disponibili al loro interno a causa del perenne deficit di produzione comporta l’inevitabile e disperato esito dell’aggressione di enclavi esterne o confinanti ad alto differenziale di benessere..

Le già poche risorse presenti nella comune verrebbero impiegate in termini disfunzionali: non quindi per produrre maggior ricchezza, ma per massimizzare l’ottenimento coercitivo di nuove risorse dall’esterno da poter redistribuire o collettivizzare in un secondo tempo. Ne consegue una maggior espansione della comune e dei suoi principi impositivi sul territorio, nel tentativo di obbligare con la forza gli individui e le altre enclavi a rispettare i vincoli e i parametri ideologici antiproprietari da loro arbitrariamente prefissati, in ragione del loro uso della forza; il tutto in termini non dissimili dai soggetti proto-statuali criminali o dagli apparati burocratici istituzionali oggi vigenti.

In pratica, una comune anarcocomunista mostrerebbe tutte le archetipiche sintomatologie di uno Stato socialista differenziandosi da esso solo per i tempi di sua inevitabile implosione.

 

NOTE

[1]    La differenza fra l’ordine spontaneo del mercato e un ordine sociale democratico sta nel fatto che il primo include al proprio interno organizzazioni, come le aziende, ciascuna delle quali può adottare un processo decisionale democratico (p. es attraverso le deliberazioni del Cda aziendale), mentre il secondo implica che la società stessa viene gestita come un’organizzazione.

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