GIOVANNI BIRINDELLI, 8.8.2016
(Pubblicazione originale: MiglioVerde)
- Il “diritto” di rubare
Il 3 maggio 2016 la Corte di Cassazione ha dichiarato che rubare quando si ha fame è giusto: «il fatto non costituisce reato» (vedi articolo del Corriere della Sera). La notizia è stata riportata perfino dalla BBC, con stupore per il supporto che la sentenza ha avuto dai giornali mainstream italiani. Nelle parole di Massimo Gramellini su La Stampa, «Per i giudici supremi, il diritto alla sopravvivenza prevale su quello di proprietà» (dal che seguirebbe che coloro che, come Gramellini, sono entusiasticamente a favore di questa sentenza, per coerenza dovrebbero essere altrettanto entusiasticamente a favore anche del fatto che al loro figlio sia sottratto con la forza uno dei due suoi due reni sani perché sia trapiantato su un bambino che rischia di morire a causa del fatto che entrambi i suoi reni sono malati).
Non che fino a oggi, in alcuni casi particolari, il furto non sia comunemente e formalmente considerato un “diritto”. Basti pensare alla tassazione (anche attraverso inflazione[1]). Tuttavia, fino a oggi, in Italia, il furto è stato formalmente considerato un “diritto” solo quando a compierlo erano particolari organizzazioni statali o privilegiate dallo stato (il che naturalmente, dal punto di vista di chi vede l’aggressione come un crimine, costituisce un’aggravante, non un’attenuante). Il fatto che al furto legale siano stati dati nomi particolari per distinguerlo dal furto illegale (per esempio “tassazione” al posto di “estorsione”) esprime una sorta di pudore.
Con la sentenza del 3 maggio la Corte di Cassazione ha fatto un significativo passo in avanti. Il furto adesso può essere formalmente considerato un “diritto” non solo quando è chiamato “tassazione” ma in alcuni casi anche quando è chiamato col suo nome. Cioè non solo quando chi lo compie è un’organizzazione privilegiata, ma anche quando viene fatto da privati per il soddisfacimento di particolari “bisogni di base”.
Prima di procedere, sottolineo due differenze che non hanno bisogno di essere sottolineate, ma non si sa mai. La prima, è la differenza fra giustizia e onesta necessità. Se mio figlio stesse morendo di sete e io fossi in una condizione di non poter ottenere dell’acqua se non sfondando la porta di una casa e appropriandomi della bottiglia d’acqua che si trova all’interno, non esiterei un istante a farlo. Una cosa, tuttavia, è appropriarsi di quell’acqua sapendo e riconoscendo di non averne diritto. Un’altra è rubare sapendo che «il fatto non costituisce reato». Nel primo caso, indipendentemente dal fatto che io sia una persona onesta o meno, sarei incentivato a far riparare la porta a mie spese il prima possibile, a restituire quanto sottratto oltre a un importo per il disturbo e a chiedere umilmente scusa. Infatti so che altrimenti potrei dover subire l’umiliazione di una misura coercitiva che (in un paese civile) comunque mi imporrebbe di fare queste cose. Nel secondo caso, dato che riterrei semplicemente di aver esercitato un mio “diritto”, sarei incentivato a non fare nulla del genere, ma anzi a non darmi da fare per procurarmi quella bottiglia d’acqua con mezzi legittimi.
La seconda differenza che sottolineo è quella fra giustizia e pietà umana. Nella scena finale del film Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, il proprietario della bicicletta rubata, leggendo negli occhi dell’improvvisato ladro la disperazione di un uomo onesto indotto a rubare per necessità, rifiuta di denunciarlo e, una volta recuperata la sua bicicletta, ne ha pietà umana e fa finire lì la questione: «Lascialo stà. Non voglio impicci. Buongiorno a tutti e grazie.» Nel perdonare il ladro, il proprietario della bicicletta non ha affermato che quest’ultimo aveva il “diritto” di rubarla. Egli non ha votato a favore di una “legge” che consentisse il furto in casi di estrema necessità, né ha emesso una sentenza che ha “acclarato” che il furto di quella bicicletta era legale. Non ha fatto il magnanimo con la proprietà degli altri. Ha scelto liberamente di perdonare il “ladro” della sua bicicletta.
La sentenza della Corte di Cassazione ha creato un “diritto” di rubare quando il furto è finalizzato al soddisfacimento di «immediati ed essenziali bisogni alimentari». Da un punto di vista della giustizia, questo fatto costituisce una sua ulteriore umiliazione in quanto implica un’ulteriore violazione del principio di non aggressione. Tuttavia, come dimostra l’evoluzione quantitativa e qualitativa della tassazione nello stato moderno (non solo italiano), questa decisione avrà serie conseguenze negative a lungo termine. Una volta che si supera la barriera etica che rende il furto illegittimo sempre e comunque (chiunque sia a compierlo e qualunque ne sia il motivo), diventa impossibile stabilire un limite non arbitrario e, ancora di più, arrestare la continua espansione del furto legale. Una volta che si crea il “diritto” alla tassazione, la creazione del “diritto” al furto finalizzato al soddisfacimento dei propri bisogni alimentari non è una cosa che deve stupire. E una volta creato questo “diritto”, perché non creare anche il “diritto” al furto di una bicicletta per poter fare il lavoro che la richiede e che consente di sfamarsi? Perché non creare il “diritto” al furto finalizzato all’acquisizione del denaro necessario per curarsi di una malattia grave? O a comprare i vestiti necessari per l’inverno? Oppure, essendo stati sfrattati, a occupare la casa dove si abita?
Tra l’altro, non c’è alcuna ragione di assumere che per tutte le persone la cura di una malattia grave debba necessariamente essere più importante per esempio del possesso di una particolare opera d’arte. Coerentemente con la sua individuale scala di priorità, Tizio potrebbe preferire possedere una particolare opera d’arte che appartiene a Caio per un anno e poi morire, piuttosto che guarire e vivere in salute molti altri anni ma senza mai possedere quell’opera d’arte. Perché allora non dargli il “diritto” di rubare legalmente l’opera d’arte di Caio? La risposta, di solito, è che quello di curarsi di una malattia grave è un bisogno “importante”, mentre quello di possedere una particolare opera d’arte non lo è. Questa risposta trascura la teoria soggettiva del valore, e quindi il fatto che non esistono bisogni che sono oggettivamente “importanti”: come ricorda Mises, «È un errore assumere che il desiderio di procurarsi ciò che è di prima necessità per la vita e per la salute sia più razionale, naturale o giustificato che il cercare di procurarsi altri beni o piaceri»[2]. L’“importanza” è sempre necessariamente relazionata all’individuo, alle sue particolari preferenze e scale di priorità (che tra l’altro variano nello spazio e nel tempo). Supporre che esistano bisogni oggettivamente “importanti” significa negare l’individualità.
Tuttavia, anche se, per assurdo, ammettessimo che esistono bisogni oggettivamente “importanti” e “di base”, violare legalmente la proprietà altrui per garantirne il soddisfacimento significa adottare una mentalità collettivista e rifiutare la libertà, cioè il principio di non aggressione.
Ora, che questa mentalità collettivista, e quindi la giustificazione del furto in casi particolari, sia condivisa da esponenti dello stato moderno e da tutti coloro che per diverse ragioni non sono intellettualmente capaci di vederne la natura totalitaria, non sorprende nemmeno un po’. Sorprende, tuttavia, che un filosofo sedicente “anarco-capitalista” abbia questa mentalità.
Nel suo recente libro Il problema dell’autorità politica. Un esame del diritto di obbligare e del dovere di obbedire (2015 [2013], Liberilibri), Michael Huemer afferma per esempio:
«la fame estrema può essere considerata come situazione di emergenza sufficiente a giustificare la violazione dei diritti di proprietà di un’altra persona»[3];
«Io penso che […], per lo Stato (o per un agente privato), raccogliere fondi in modo coercitivo per alleviare la povertà mondiale è ammissibile»[4];
«Il principio di non aggressione […] è l’idea per cui gli individui non dovrebbero attaccare, uccidere, derubare o defraudare un’altra persona […] tranne [che] in poche speciali circostanze [stabilite da chi? In base a quali criteri oggettivi? N.d.r.]. […] Non asserisco che il furto non è mai ammissibile. Suppongo semplicemente che non è ammissibile in circostanze normali»[5];
«Dedico questa sezione ad affrontare ciò che considero l’argomento più valido in favore della redistribuzione del reddito. È un argomento largamente umanitario piuttosto che ugualitario: vale a dire si concentra sul problema che i bisogni di base di alcune persone non sono soddisfatti»[6] [È significativo che in nessuna parte del suo lavoro l’Autore definisca i “bisogni di base” e che egli mostri di ignorare completamente le ragioni economiche in base alle quali la stessa possibilità di soddisfare coercitivamente i “bisogni di base” di coloro che non riescono a soddisfarli autonomamente non fa che aumentare, nel lungo periodo, il numero di persone che si troveranno in questa situazione].
Questa del “diritto” di rubare costituisce solo una delle numerose posizioni del sedicente “anarco-capitalista” Huemer che sono incompatibili con quel corpo di teorie scientifiche della libertà che vanno sotto il nome di anarco-capitalismo (chiarisco brevemente in nota[7] il significato che, in questo articolo, attribuisco a questo termine). Qui di seguito ne discuterò alcune altre. Infine, nell’ultima parte dell’articolo, cercherò di spiegare, dal mio punto di vista, quali sono le ragioni di fondo che portano Huemer a conclusioni collettiviste (pur pensando egli di essere un “anarco-capitalista” e quindi favorevole alla libertà).
- Il “bene della società”
Nel suo lavoro Huemer fa continuamente riferimento, esplicitamente o implicitamente, a concetti quali «il bene della società»[8], il «beneficio [o utilità] sociale»[9], l’«utilità totale della società»[10] e simili. Riporto alcuni passaggi:
«Forse sarebbe sbagliato evadere [le tasse] per spendere il denaro in un nuovo televisore. Sarebbe, tuttavia, ammissibile evaderle per usare quel denaro in modo socialmente più valido che darlo al governo. E quell’opzione è quasi sicuramente disponibile, poiché il beneficio sociale marginale di ogni dollaro dato al governo è molto inferiore al beneficio sociale marginale di un dollaro dato a una qualsiasi fra le tante organizzazioni benefiche private estremamente efficaci»[11];
«La teoria economica insegna che un monopolio limiterà la produzione a livelli socialmente sub-ottimali, incrementando allo stesso tempo i prezzi a livelli che massimizzeranno i suoi profitti ma abbasseranno l’utilità totale della società»[12];
«è ammissibile obbligare una persona con la forza o violarne i diritti di proprietà, a patto che farlo sia necessario per impedire che accada qualcosa di molto peggio [molto peggio per chi? N.d.r.]»[13];
«Tale danno a terzi innocenti può a volte essere giustificato. Ma ciò, in genere, richiederà benefici previsti molto superiori ai danni previsti» [benefici per chi? N.d.r.][14];
«Il paternalismo è giustificato […] in circostanze estreme»[15].
Analogamente al caso dei bisogni “importanti” accennato sopra, anche se (per assurdo) concetti quali il “bene della società” e simili potessero essere definiti in modo non arbitrario e quindi avere un senso logico, giustificare la violazione dei diritti di proprietà in funzione del “bene della società” è di per sé un indicatore sufficiente di una mentalità collettivista (ricordo brevemente in nota[16] la differenza fra una società libera e una collettivista).
Tuttavia, concetti quali il “bene della società”, il “beneficio [o utilità] sociale” e simili non hanno alcun senso logico. E questo è un fatto oggettivo.
Infatti, dato che diverse persone hanno necessariamente diverse preferenze, priorità e individualità, l’utilità può essere solo individuale, non collettiva. Come dice Mises, «Solo l’individuo pensa. Solo l’individuo ragiona. Solo l’individuo agisce»[17]. Solo l’individuo desidera, sente emozioni, ha preferenze.
Alcune persone, come ad esempio Huemer, contesterebbero che l’“utilità sociale” sia un concetto privo di senso logico sulla base del fatto che essa deriva dalla somma (più o meno ponderata, quindi più o meno arbitraria) delle utilità individuali (come abbiamo visto, Huemer parla per esempio di «utilità totale della società»). Il problema di questa obiezione è che le utilità individuali non sono comparabili, quindi non sono nemmeno sommabili. Quello di presupporre la comparabilità delle utilità di persone diverse è uno fra gli errori più grossolani che possano essere fatti in economia. Purtroppo questo errore, in diverse salse, è molto comune (perfino fra sedicenti “economisti”), il che ha conseguenze pratiche molto vaste e dannose.
Huemer, per esempio, sostiene che «Esiste un argomento semplice e ben conosciuto per pensare che i programmi anti-povertà sono complessivamente positivi: i programmi anti-povertà redistribuiscono il denaro dalle persone più ricche a quelle più povere. Secondo il ben noto principio dell’utilità marginale decrescente del denaro, una data quantità di denaro darà di solito più beneficio a una persona più povera che a una persona più ricca (i poveri hanno più bisogno di denaro). I programmi redistributivi dovrebbero pertanto fare più bene [alla società, n.d.r.] che male. Questo argomento teorico è verosimile ed evidente»[18]. Ora, tralasciando per motivi di spazio di discutere le ragioni teoriche per cui nel lungo periodo i programmi redistributivi tendono necessariamente a peggiorare le condizioni economiche soprattutto dei più poveri (ragioni che evidentemente Huemer ignora del tutto), l’affermazione: «secondo il ben noto principio dell’utilità marginale decrescente del denaro, una data quantità di denaro darà di solito più beneficio a una persona più povera che a una persona più ricca» è semplicemente falsa ed esprime una confusione radicale in relazione a uno degli aspetti fondamentali della teoria economica.
Il principio dell’utilità marginale decrescente infatti afferma che, per la stessa persona, date le sue individuali preferenze e scale di priorità, un incremento marginale della quantità di denaro a sua disposizione avrà un beneficio (o utilità) minore al crescere della quantità di denaro in suo possesso. Per esempio, per Tizio, che poniamo ha una ricchezza di 10.000 euro, una vincita alla lotteria di 5.000 euro avrà un’utilità maggiore di quella che la stessa vincita avrebbe, sempre per Tizio, se la sua ricchezza fosse di dieci milioni di euro. Questo non vuol dire affatto, tuttavia, che per Tizio, che poniamo ha una ricchezza di 10.000 euro, una vincita alla lotteria di 5.000 euro avrà un’utilità maggiore di quella che la stessa vincita avrebbe per Caio se la ricchezza di quest’ultimo fosse di dieci milioni di euro. Questa seconda affermazione (che è quella di Huemer e che non ha nulla a che vedere col principio dell’utilità marginale decrescente) presuppone che le utilità di Tizio e di Caio possano essere comparate, il che è impossibile in quanto Tizio e Caio, essendo individui diversi, hanno preferenze e priorità necessariamente diverse. Per tentare di chiarire ulteriormente questo punto fondamentale e quasi sempre oggetto di confusione, ricorro a un esempio in nota[19].
In conclusione, anche se il “bene della società” esistesse e potesse essere definito in modo non arbitrario, esso non giustificherebbe in alcun modo la violazione dei diritti di proprietà. Tuttavia il “bene della società” a cui Huemer si riferisce continuamente non esiste. Non è nemmeno un’illusione: è un oggettivo errore logico che deriva dall’ignorare la teoria soggettiva del valore e dal supporre, assurdamente, che le utilità di individui diversi possano essere comparate fra loro e perfino sommate l’una all’altra. Questo errore grossolano esprime l’essenza stessa del modo di pensare collettivista. Nonostante la sua banalità (o forse proprio grazie a questa) l’errore di pensare che il “bene della società” possa esistere è così diffuso (perfino fra gli accademici come Huemer) che di fatto oggi, stando esso alla base di ogni forma di interventismo statale, costituisce il fondamento indiscusso dei sistemi politici occidentali e produce livelli di povertà, ingiustizia, morte e sofferenza talmente alti da non essere nemmeno quantificabili.
- Il rifiuto dell’egoismo
Una caratteristica tipica del collettivismo è il rifiuto dell’egoismo. E Huemer, avendo una mentalità collettivista, rifiuta l’egoismo nel senso che lo trova ingiusto e quindi sembra addirittura giustificare un’aggressione nei confronti delle persone egoiste:
«Respingo l’egoismo, poiché credo che gli individui abbiano l’obbligo sostanziale di tenere in conto gli interessi degli altri»[20];
«è verosimile considerare una donazione regolare come requisito di decoroso rispetto per la vita umana»[21].
L’egoismo è una particolare espressione dell’individualismo. Individualista è colui che agisce volontariamente in funzione degli interessi solo di persone, cause, ecc. che gli stanno a cuore (siano queste sé stesso, la sua famiglia, i suoi amici, un bambino che sta annegando in uno stagno accanto al quale la persona si trova a passare in quel momento, i poveri del mondo, le balene, i carcerati, l’ambiente, ecc.). Il soddisfacimento di questi interessi contribuisce a rendere felice l’individualista: in termini tecnici, rientra nella sua “funzione di utilità”. Attraverso l’azione volontaria in favore di questi interessi, l’individualista esprime, appunto, la sua individualità.
L’egoista è quel particolare individualista che ha a cuore solo sé stesso e che quindi agisce esclusivamente in funzione dei suoi propri interessi in senso stretto (in quanto tale, è una figura più mitica che reale). In ogni caso è bene ricordare che anche l’egoista, perseguendo i suoi propri interessi, contribuisce involontariamente a fare gli interessi degli altri (il principio della mano invisibile di Adam Smith): ben venga l’egoismo del meccanico, se questo lo spinge a offrire il miglior servizio sul mercato e consente a me di far riparare l’automobile al prezzo più competitivo.
L’altruista, viceversa, può essere definito come colui che agisce in funzione degli “altri” in quanto tali, cioè in quanto entità indistinta: per esempio persone che non gli stanno a cuore per alcun motivo a parte il loro essere “altri”. Altruista è ciò che per esempio lo stato moderno chiede al cittadino di essere nel momento in cui gli impone di pagare le tasse per il “bene della collettività” (magari con entusiasmo, affermando che sono «bellissime» come fece un ministro del governo italiano).
Ora, per quanto triste e povera di spirito una persona egoista possa essere dalla prospettiva di qualcuno che ha a cuore altre persone e cause oltre a sé stesso, l’egoismo è una legittima espressione dell’individualità (legittima in quanto non viola il principio di non aggressione). Quindi rifiutare l’egoismo, come fa Huemer, implica rifiutare l’individualità, dunque la libertà intesa in termini di assenza di coercizione illegittima di alcuni su altri. Nel momento in cui Huemer sostiene che «gli individui hanno l’obbligo sostanziale di tenere in conto gli interessi degli altri» egli di fatto sostiene che questi “altri” hanno dei “diritti” di proprietà sul tempo e sulle risorse degli individui.
La ragione per cui Huemer arriva a questa posizione collettivista e assolutamente incompatibile con la libertà è che egli trascura completamente di prendere in considerazione il concetto di individualismo (prende in considerazione solo l’egoismo). Questo è comprensibile: nel momento in cui uno prende seriamente in considerazione il concetto di individualismo ne scopre due sue caratteristiche che sono apparentemente in contraddizione fra loro (ma che in realtà sono in perfetta armonia): la prima, è che l’individualismo comprende l’egoismo; la seconda, è che, allo stesso tempo, l’individualismo comprende anche la generosità e perfino il sacrificio per il bene di persone e cause che sono altro da sé[22]; ma una generosità e un sacrificio che non sono un «obbligo», bensì un atto volontario. Ed è proprio la volontarietà che rende possibili gli scambi di mercato e la solidarietà, e quindi che crea quei legami fra individui che caratterizzano una società libera e prospera.
In conclusione, nel respingere l’egoismo e nel non prendere in considerazione l’individualismo, Huemer fa una gran confusione ed errori grossolani. Di nuovo, questa confusione e questi errori sono non solo molto diffusi, ma anche tipici di una mentalità collettivista che a prima vista sembra incompatibile con l’etichetta “anarco-capitalista” che Huemer si è affibbiato.
- Le ragioni della confusione
Io credo che le ragioni di tanta confusione e soprattutto della contraddizione fra etichetta favorevole alla libertà e posizioni apertamente collettiviste, siano numerose e diverse (anche se probabilmente in alcuni casi correlate fra loro). Fra queste ragioni, due mi sembrano quelle più importanti:
- la metodologia “intuizionista”;
- la specializzazione tipicamente accademica.
4.1 La metodologia “intuizionista”
Humer sviluppa tutto il suo pensiero ricorrendo a una metodologia cosiddetta “intuizionista” la quale si basa interamente sulla «morale di senso comune»[23]. In particolare, Humer sostiene di non volersi misurare con alcuna «teoria morale esauriente»[24] in quanto afferma di non conoscere la «teoria morale corretta. E penso che nessuno la conosca»[25] (ricordo che l’Autore ha evitato accuratamente di misurarsi con l’anarco-capitalismo per come lo intendo in questo articolo, vedi nota 7). Forse è vero che la teoria morale corretta non esiste. Tuttavia esiste la ricerca della teoria morale corretta. E, grazie a questa ricerca, quando è scientifica, esiste un progressivo avvicinarsi alla teoria morale corretta. La modestia di Huemer sarebbe apprezzabile se non implicasse la rinuncia alla ricerca scientifica e quindi, in effetti, l’estrema arroganza di sostenere una particolare tesi senza argomentazione logica ma esplicitamente sulla base del fatto che, in base al “senso comune”, essa è «ovvia» ed «evidente».
Purtroppo per Huemer, il “senso comune” è spesso in contraddizione con la scienza. Per duemila anni il “senso comune” era che fosse il Sole a orbitare attorno alla Terra (ancora oggi diciamo che è il Sole che “sorge” e “tramonta”). Dimostrare la verità scientifica in questo caso, come in molti altri, ha richiesto non solo parecchia fatica, parecchio rigore logico, fermo rifiuto della possibilità di eccezioni arbitrarie[26] ma anche e soprattutto la costante disponibilità a mettere in discussione il “senso comune”: «La storia della cosmologia non è la facile storia del rifiuto di idee assurde in favore di ciò che (magari dopo averci pensato un po’) è riconosciuto essere palesemente vero, ma la saga eroica del rifiuto conquistato con fatica di ciò che è riconosciuto essere palesemente vero [il fatto che è il Sole a orbitare attorno alla Terra, n.d.r.] in favore dell’assurdo [il fatto che è la Terra a orbitare attorno al Sole, n.d.r.]»[27]. Il “senso comune” è che l’utilità marginale di un euro per una persona ricca sia necessariamente minore dell’utilità marginale di un euro per una persona povera. Per Huemer il fatto che il “senso comune” suggerisca questa particolare relazione è di per sé sufficiente a dare per scontato che essa sia valida, al punto che non c’è nemmeno bisogno di indagarla razionalmente: «è verosimile ed evidente»[28], palese insomma. Come abbiamo visto (vedi sezione 2), applicando il ragionamento logico (o studiando i lavori di chi lo ha applicato) è facile dimostrare che anche in questo caso il “senso comune” è oggettivamente (scientificamente) falso.
Huemer tuttavia rinuncia esplicitamente ad applicare il ragionamento logico: «Respingo l’assolutismo etico, poiché credo che i diritti di un individuo possono essere scavalcati da necessità altrui sufficientemente importanti»[29]. Il ragionamento logico ha infatti l’inconveniente di richiedere coerenza astratta e quindi di essere vincolante. Rinunciando metodologicamente a esso, l’Autore si mantiene libero di sostenere allo stesso tempo una cosa (per esempio la validità del principio di non aggressione, e quindi del diritto negativo: «gli individui hanno un diritto ovvio preesistente a non essere assoggettati a coercizione»[30]) e il suo contrario (la giustificazione dell’aggressione in casi particolari, e quindi del “diritto” positivo: «Io penso che […], per lo Stato (o per un agente privato), raccogliere fondi in modo coercitivo per alleviare la povertà mondiale è ammissibile»[31]). Indubbiamente molto comodo, ma senza alcun valore sul piano della scienza sociale.
4.2 La specializzazione accademica
Oltre alla sua “metodologia”, un altro fattore che io ritengo stia alla base del collettivismo inconsapevole di Huemer è la sua specializzazione, che spesso è una caratteristica squisitamente accademica. In altre parole, il suo essere, nonostante maldestri riferimenti alla «teoria economica», del tutto a digiuno di scienza economica: il suo considerare la filosofia politica come una materia a sé stante. Come abbiamo visto, questa sua totale ignoranza economica lo ha portato a trascurare, fra le altre cose, la teoria soggettiva del valore; lo ha portato a dare per scontato che le utilità individuali possano essere comparate e quindi sommate; in ultima analisi, lo ha portato a credere che il «bene della società» sia un concetto che abbia un senso logico. Si tratta di errori oggettivi e grossolani ma fondamentali, nel senso che costituiscono le fondamenta del suo lavoro e che lo portano, nonostante le sue aspirazioni “anarco-capitaliste”, a sostenere posizioni di fatto collettiviste e quindi non solo totalitarie ma anche economicamente devastanti.
- Conclusioni
Nonostante il fatto apparentemente di buon auspicio che il «presupposto centrale» del suo libro sia «la gravità morale della coercizione»[32], a causa della sua metodologia e dei suoi limiti culturali il lavoro di Huemer finisce per essere una difesa della coercizione arbitraria e del collettivismo.
Il “libertarismo dei diritti civili” (in inglese, civil libertarianism) è quella corrente di pensiero che presenta due caratteristiche particolari che la rendono incompatibile col libertarismo anarco-capitalista e compatibile col collettivismo:
- Afferma la necessità dell’esistenza dello stato e del fatto che esso debba essere titolare di privilegi: e cioè che le sue agenzie possano commettere legalmente azioni (come la tassazione ad esempio) che se fossero commesse da un individuo qualunque sarebbero considerate dei crimini;
- Nega la legittimità dell’aggressione in tutti i casi tranne che nel caso della redistribuzione delle risorse, dove invece la incoraggia.
Ora, Huemer mostra un’ammirazione notevole per lo stato democratico:
«[la democrazia, come sistema politico], «è ammirabile. È ovviamente di gran lunga superiore a qualsiasi altra forma di governo conosciuta [ricordo che l’Autore non si misura con gli autori fondamentali del libertarismo e del liberalismo classico quali Rothbard, Hayek, Hoppe, ecc. Se si misurasse coi loro argomenti, forse troverebbe più difficile utilizzare l’avverbio «ovviamente», n.d.r.]»[33];
«il movimento verso la democrazia liberale nel corso degli ultimi 200 anni ha segnato […] una vittoria enorme per la libertà individuale»[34] [delle due l’una: o Huemer ignora il fatto che la tassazione, il debito pubblico e l’inflazione, negli ultimi 100 anni, sono aumentati vertiginosamente, oppure ritiene che la violazione sistematica della proprietà individuale non sia una forma di aggressione che contribuisce a ridurre la libertà individuale, n.d.r.]
Nonostante questa notevole ammirazione per lo stato democratico, puntando a una società “anarchica” Huemer in qualche modo rinuncia alla prima caratteristica dei “libertari dei diritti civili” (l’affermazione della necessità dell’esistenza dello stato e del fatto che esso debba essere titolare di privilegi). In questo senso, rispetto ai civil libertarians, l’Autore fa quindi un passo avanti. Egli tuttavia non rinuncia alla seconda caratteristica (la giustificazione dell’aggressione nel caso della redistribuzione delle risorse). Quest’ultima caratteristica (che deriva dal ritenere che “il bene della società” sia un concetto che ha un senso) è di per sé sufficiente a qualificare un pensiero come collettivista. Quindi Huemer, anche se anarchico, è un collettivista. E come avviene nel caso di tutti i collettivisti, il suo ragionamento è intrinsecamente contraddittorio e quindi non scientifico.
Il fatto che egli si definisca “anarco-capitalista” deriva dal fatto che non prende in considerazione il pensiero anarco-capitalista per come lo ho definito in questo lungo articolo (vedi nota 7), a partire da quello di Murray Rothbard. Egli fa riferimento ad altri autori cosiddetti “anarco-capitalisti” (per esempio a David Friedman) coi quali condivide le stesse contraddizioni, lo stesso approccio utilitarista, lo stesso rispetto di fondo per lo stato, la stessa distanza asettica e sterile che caratterizza l’accademia mainstream, la stessa assenza di profondo e personale conflitto etico con le attuali strutture politiche democratiche che invece caratterizza i difensori della libertà. A proposito di David Friedman, Rothbard scriveva:
«Recentemente sono stato a rimuginare su quali siano le questioni cruciali che dividono i libertari. Alcune che hanno ricevuto un sacco di attenzione negli ultimi anni sono: anarco-capitalisti contro governo limitato, abolizionismo contro gradualismo, diritti naturali contro utilitarismo e guerra contro pace. Ma ho concluso che nonostante siano importanti queste questioni, non arrivano realmente al nocciolo dell’argomento della principale linea divisoria tra di noi.
Prendiamo, per esempio, due dei maggiori lavori sull’anarco-capitalismo degli ultimi anni: il mio For a New Liberty e Machinery of Freedom di David Friedman. Superficialmente le maggiori differenze tra di loro sono la mia posizione per i diritti naturali ed un codice di leggi razionale, in opposizione all’utilitarismo amorale di Friedman e l’invocazione verso uno scambio di favori ed un compromesso tra agenzie private di polizia non libertarie. Ma la differenza va ancora più in profondità. In tutto For a New Liberty (e per il resto dei miei altri lavori) [questa parentesi, in cui Rothbard sottolinea con orgoglio, non la sua indisponibilità a cambiare idea, ma la coerenza delle sue idee, è la mia parte preferita di tutto questo passaggio, n.d.r.] corre un profondo e pervasivo odio per lo Stato e per tutti i suoi lavori, basato sulla convinzione che lo Stato è il nemico dell’umanità. Al contrario, è evidente che David non odia affatto lo Stato; egli è solo arrivato alla conclusione che l’anarchismo e le forze di polizia privata sono un sistema sociale ed economico migliore di qualsiasi altro. Oppure, più chiaramente, che l’anarchismo sarebbe meglio del laissez-faire che a volte è meglio dell’attuale sistema. In mezzo all’intero spettro delle alternative politiche, David Friedman ha deciso che l’anarco-capitalismo è superiore. Ma superiore ad una struttura politica esistente che è anche abbastanza buona. In breve, non c’è alcun segno che David Friedman odii in qualsiasi senso lo Stato americano o lo Stato di per sé, lo odii fin nelle viscere come una banda di ladri, schiavisti ed assassini. No, c’è solo la fredda convinzione che l’anarchismo sarebbe il migliore di tutti i mondi possibili, ma che la nostra attuale organizzazione sia abbastanza in alto in desiderabilità. Poichè non c’è alcun segno da parte di Friedman che lo Stato – qualsiasi Stato – sia una banda di criminali».[35]
Molto di quello che Rothbard scrive qui su David Friedman si applica paro paro a Michael Huemer. L’odio di Rothbard per lo stato non è una passione originaria e irrazionale (come può essere, in positivo, l’amore per una donna) ma il risultato emotivo di un pensiero scientifico, e quindi logicamente coerente con le sue premesse. Grazie al suo pensiero scientifico (che è filosofico ed economico insieme, oltre che storico), Rothbard è intellettualmente in grado di vedere con chiarezza l’ingiustizia che l’esistenza dello stato di per sé comporta e il male che esso fa. Michael Huemer non odia lo stato perché, essendo incapace di pensiero scientifico (in altri termini, affidandosi al “senso comune”), pur avendo una moderata ostilità nei confronti della coercizione, non esita a ricorrervi per il “bene della società”. Né, essendo analfabeta in scienza economica, egli è in grado di vedere (neanche in minima parte), l’immenso danno economico che l’interventismo dello stato necessariamente produce.
L’unica parte del libro di Huemer che ho trovato davvero bellissima, e che non a caso non contiene alcuna riflessione filosofica, è il capitolo 6 (“La psicologia dell’autorità”). In questo capitolo, Huemer raccoglie, esponendoli in modo molto efficace e approfondito, i risultati di diversi studi scientifici che spiegano le dinamiche psicologiche che portano le persone ad assoggettarsi all’autorità, e perfino ad amarla.
NOTE
[1] Cioè l’aumento della quantità di denaro fiat a corso forzoso da parte del sistema bancario anti-capitalista, che normalmente ha l’effetto di diminuire il potere d’acquisto del denaro che uno ha in tasca (e che in ogni caso ha l’effetto di produrre crisi economiche cicliche).
[2] Mises L., 2007, Human Action (Liberty Fund, Indianapolis), Vol. 1, pp. 19-20.
[3] Huemer M., 2015 [2013], Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, Macerata), p. 260.
[4] Ibid., p. 260.
[5] Ibid., p. 284, corsivo nell’originale.
[6] Ibid., p. 247, corsivo mio.
[7] In questo articolo, col termine anarco-capitalismo, mi riferirò a una corrente di pensiero che ha, fra le altre, due caratteristiche particolari:
- il fatto che, sul piano filosofico, essa si sviluppa coerentemente sulla base del principio di non aggressione. Grazie a questa coerenza (cioè all’assenza di eccezioni arbitrarie), le teorie che fanno parte di questa (variegata) scuola di pensiero sono teorie scientifiche;
- il fatto che questa scuola di pensiero integra in modo strutturale filosofia politica e scienza economica (cioè la Scuola Austriaca di economia, i cui fondamenti sono la teoria soggettiva del valore e il metodo prasseologico – la logica applicata all’azione umana). In altre parole, il fatto che la filosofia politica non viene vista come una disciplina a sé stante e indipendente dalla scienza economica ma, al contrario, come necessariamente e strutturalmente integrata a quest’ultima.
Come vedremo (e come è già osservabile nei passaggi citati sopra), Michael Huemer, pur definendosi “anarco-capitalista” non è affatto un anarco-capitalista nel senso di cui sopra.
Ma c’è di più. Nel suo testo estremamente ricco di riferimenti a diverse scuole di pensiero filosofiche, Huemer non fa alcun cenno agli autori anarco-capitalisti, come Rothbard, Hoppe o De Jasay per esempio. (Rothbard viene menzionato all’interno di un’unica nota, la nr. 1 del capitolo 10 – relativo non alle questioni filosofiche ma a quelle pratiche di come potrebbe funzionare una società anarchica –, in cui viene ammesso che «questa proposta deriva dal capitolo 12 di [For a New Liberty di] Rothbard». Dato che l’intero capitolo 10 del libro di Huemer – o meglio, la parte di esso che si regge in piedi – è ripresa da Rothard, trovo quasi volgare il fatto che Rothbard non venga menzionato nel testo e che non venga menzionato mai in relazione alla parte filosofica che sorregge il capitolo del suo libro su cui Huemer basa la sua proposta). Né Huemer fa alcun cenno a economisti (oltre che in molti casi filosofi politici), come ad esempio Mises e Hayek, che, pur non essendo anarco-capitalisti, hanno contribuito in modo fondamentale non solo alla teoria della libertà ma anche a sviluppare la Scuola Austriaca di economia, cioè “l’altro lato” della “medaglia” anarco-capitalista. Il fatto che egli ignori completamente la scienza economica e gli autori che costituiscono la colonna portante del pensiero filosofico libertario, lo porta, come vedremo, a fare degli errori grossolani nei suoi ragionamenti e in effetti a uscire dall’àmbito scientifico per entrare in quello delle chiacchiere da bar.
Tuttavia, il fatto che, mentre si definisce “anarco-capitalista” e prende dettagliatamente in considerazione praticamente ogni altra moderna corrente di pensiero che si è misurata col tema della libertà, Huemer trascuri anche solo di menzionare nel suo lavoro un solo autore anarco-capitalista, è una scelta (peraltro quasi universale nel mondo accademico) che trovo, oltre che incomprensibile e dannosa sul piano del lavoro scientifico, anche esteticamente sgradevole, poco elegante e poco onorevole.
[8] Huemer M., 2015 [2013], Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, Macerata), p. 337.
[9] Ibid., p. 168.
[10] Ibid., p. 394.
[11] Ibid., p. 168.
[12] Ibid., p. 394.
[13] Ibid., p. 170.
[14] Ibid., p. 270.
[15] Ibid., p. 235.
[16] Una società libera è quella in cui le persone non hanno ostacoli di tipo coercitivo nel loro agire in funzione dei propri fini individuali legittimi, cioè che non sono in contraddizione col principio di non aggressione (che naturalmente, contrariamente a quanto sostiene Huemer, in quanto principio logicamente non ammette alcuna eccezione). Nell’agire in funzione di questi fini, le persone utilizzano, fra le altre cose, le loro risorse, le loro capacità, il loro tempo, la loro energia, il loro coraggio e soprattutto la loro conoscenza individuale (che è anche e soprattutto una conoscenza di tempo e di luogo che non è disponibile a nessun altro). I fini individuali dipendono interamente dalle preferenze e priorità individuali. Il risultato di questo agire, è un ordine sociale spontaneo (frutto dell’azione delle persone ma del disegno – cioè della progettazione – di nessuno): la società liberà (e quindi anche il libero mercato).
Viceversa, una società collettivista (o totalitaria) è quella in cui qualcuno (p. es. una maggioranza rappresentativa) stabilisce arbitrariamente e irresponsabilmente (cioè senza subire personalmente le conseguenze delle sue decisioni politiche) uno o più fini collettivi (il “bene della società”) e poi costringe le persone, violando i loro diritti di proprietà (p. es. attraverso la tassazione), a perseguire in qualche modo e in qualche misura quei fini collettivi. Il risultato di questo agire è un ordine sociale positivo, cioè un’organizzazione: frutto sia dell’azione delle persone che del disegno di chi stabilisce (e ha potere di imporre) i fini collettivi.
L’ordine positivo (l’organizzazione) non è una brutta cosa in sé, al contrario: la costruzione del computer su cui sto scrivendo richiede l’ordine positivo e sarebbe impossibile con un ordine spontaneo. Quello che è estremamente negativo, è il ricorso all’ordine positivo per la società nel suo complesso. Ciò è estremamente negativo per due ragioni. La prima (etica) è che un ordine sociale positivo è necessariamente totalitario (il potere di stabilire fini collettivi obbligatori implica infatti necessariamente un potere coercitivo illimitato). La seconda (economica) è che un ordine sociale positivo è necessariamente fallimentare rispetto a un ordine spontaneo: questo in ragione del fatto che la quantità e la qualità della conoscenza (centralizzata) utilizzata in un ordine sociale positivo sono necessariamente e incalcolabilmente inferiori rispetto a quelle della conoscenza (periferica) utilizzata in un ordine spontaneo, cioè in una società libera. Se per la costruzione di un computer la conoscenza rilevante di cui è necessario fare uso è quella centralizzata di chi lo ha progettato, per la prosperità (e la pace) di una società, la conoscenza rilevante di cui è necessario fare uso è quella dispersa capillarmente fra gli individui.
[17] Mises L., 1979 [1922], Socialism (Liberty Press, Indianapolis), p. 97.
[18] Huemer M., 2015 [2013], Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, Macerata), pp. 248-9, corsivo mio.
[19] Supponiamo che passare parecchio tempo coi propri figli sia una delle cose che contribuiscono in modo determinante a rendere felice Tizio (cioè alla sua “utilità”); supponiamo che il suo lavoro gli permetta di farlo e che gli dia un reddito relativamente basso ma più che sufficiente a questo scopo (anche se inferiore a quello che avrebbe ottenuto facendo un altro lavoro a cui tuttavia ha rinunciato perché non gli avrebbe consentito di passare una quantità di tempo sufficiente coi propri figli, che è una delle sue priorità individuali). Viceversa, supponiamo che possedere una Lamborghini gialla sia una delle cose che contribuiscono in modo determinante a rendere felice Caio, che non ha figli; supponiamo che il suo lavoro gli dia un compenso relativamente alto ma insufficiente (anche se di poco) per comprare l’auto dei suoi sogni; e supponiamo che Caio non possa trovare un impiego che gli dia un compenso maggiore. Ora, supponiamo che Tizio e Caio ricevano la stessa donazione in denaro da parte di un familiare e che questa donazione, sebbene modesta, sia di importo tale che, aggiungendosi all’esistente disponibilità economica di Caio, gli consenta di comprare la sua Lamborghini. L’utilità del denaro della donazione sarà maggiore per Tizio (che guadagna di meno) o per Caio (che guadagna di più)? Sulla base delle informazioni che abbiamo, per Caio ovviamente. Tizio ha già quello che lo rende felice; e, data la sua particolare scala di priorità, quello che lo rende felice proviene in gran parte da beni immateriali. La donazione gli farà piacere, ma non sarà determinante. Caio invece non ha ancora quello che lo rende felice; e, data la sua particolare scala di priorità, quello che lo rende felice proviene in gran parte da beni materiali. La donazione per lui sarà determinante a ottenere quello che lo rende felice. Una redistribuzione di risorse da Caio (che guadagna di più) a Tizio (che guadagna di meno) è una discriminazione ai danni di Caio sulla base della sua individualità. È un modo per dirgli: “le tue preferenze e priorità non vanno bene, non sono quelle che io ho deciso essere quelle giuste”.
[20] Ibid., p. 283, corsivo mio.
[21] Ibid., p. 260, corsivo mio.
[22] Maria Teresa di Calcutta era un’individualista: lei non agiva per il bene degli “altri” in quanto entità indistinta, ma per i più bisognosi: la sua causa era quella e non comprendeva per esempio l’aiuto ai “ricchi”, o ai banchieri, che fano parte degli “altri” in quanto tali. E se invece di aver passato la sua vita ad aiutare i più bisognosi l’avesse passata a fare carriera come investment banker forse sarebbe stata meno felice.
[23] Huemer M., 2015 [2013], Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, Macerata), p. 63.
[24] Ibid., p. 60.
[25] Ibid., p. 59.
[26] Su questo specifico argomento mi permetto di rimandare al mio articolo Il ruolo della bellezza nella scienza (http://www.miglioverde.eu/contro-lorrore-del-socialismo-la-bellezza-estetica-della-liberta-e-della-legge/).
[27] Hoskin M., 1999, The Cambridge Concise History of astronomy (Cambridge University Press, Cambridge), p. 29, traduzione mia.
[28] Huemer M., 2015 [2013], Il problema dell’autorità politica (Liberilibri, Macerata), p. 249, corsivo mio.
[29] Ibid., p. 283.
[30] Ibid., p. 130, corsivo mio.
[31] Ibid., p. 260.
[32] Ibid., p. 269. Faccio notare che affermare che l’aggressione è “grave” invece che “illegittima” suggerisce che essa possa essere giustificata, cioè ritenuta giusta, in casi eccezionali.
[33] Ibid., p. 148.
[34] Ibid., p. 491.
[35] Rothbard M.N., luglio 1977, Do You Hate the State?, in “The Libertarian Forum”, Vol. 10, No. 7, traduzione di Luca Fusari per Movimento Libertario (http://www.movimentolibertario.com/2015/01/stato-nemico-dellumanita/).
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