Se lo stato non siamo “noi”, allora i suoi confini non sono casa “nostra”

GIOVANNI BIRINDELLI, 17.6.2018

(Pubblicazione originale: Catallaxy Institute)

L’immigrazione è un fenomeno creato interamente dall’esistenza dello stato. In assenza di proprietà cosiddetta ‘pubblica’, esisterebbero ospiti, imprenditori, impiegati, clienti, turisti, inquilini, ladri, ecc. Tutto, tranne che gli immigrati. Questi non potrebbero logicamente esistere.

Quando l’immigrazione verso un paese è motivata dal fatto che in quel paese l’immigrato può godere dei frutti di quelle particolari forme di saccheggio legale chiamate “politiche redistributive”, “stato sociale”, “diritto alla salute” ecc., essa è un fenomeno creato, oltre che dall’esistenza stessa della macchina statale, anche dalla sua attività predatoria ai danni di vari soggetti, per esempio nella forma di imposizione fiscale (ma non solo). Questi soggetti sono le persone e le imprese che sono stabilite nel territorio di quel paese; le persone e le imprese straniere che hanno investito in quel paese; le persone e le imprese straniere che hanno acquistato beni e servizi in quel paese; le persone e le imprese straniere che hanno detenuto beni mobili o immobili in quel paese; le future generazioni sulle quali graverà (illegittimamente) il maggior debito ‘pubblico’ di quel paese; e altro.

Buona o cattiva che sia a seconda dei singoli casi individuali e dei diversi punti di vista e/o interessi, l’immigrazione è quindi un fenomeno prodotto e alimentato dallo stato. In altre parole, un sottoprodotto di quest’ultimo. La sua soluzione di lungo periodo quindi non può logicamente essere trovata nello stato (p. es. in particolari “politiche per l’immigrazione”). Essa va ricercata, come sempre avviene in tutti i problemi di natura sociale creati dallo stato, nella difesa del principio di non aggressione e, in particolare, nella difesa della proprietà privata, senza se e senza ma. Quindi tale soluzione di lungo periodo va cercata contro lo stato, non attraverso lo stato.

Le reazioni di soddisfazione di diversi libertari alle nuove politiche restrittive sull’immigrazione da parte di nuovi governi cosiddetti “populisti” non sono difficili da comprendere. Come ricorda Guglielmo Piombini in questo bellissimo articolo, infatti, nelle condizioni attuali di statalismo estremo le politiche di apertura indiscriminata all’immigrazione assistenzialista non possono fare altro che accelerare ulteriormente l’espansione dell’interventismo statale e quindi la distruzione di ciò che, nonostante quell’interventismo, ancora è rimasto di libero e produttivo: «La storia della colonizzazione dell’America dimostra tutto il contrario di quello che sostengono oggi le gerarchie politiche ed ecclesiastiche dell’Europa, favorevoli all’accoglienza e al mantenimento indiscriminato degli immigrati a spese dei contribuenti. Abbiamo due modelli contrapposti di “integrazione” degli immigrati nelle società ospiti. Da un lato il sistema individualista dell’America dei pionieri, dove lo Stato è assente e tutto viene lasciato alla responsabilità dell’individuo; dall’altro il sistema assistenzialista e multiculturalista dell’Europa di oggi. Gli esiti, manco a dirlo, sono stati opposti. Mentre la filosofia borghese e libertaria del “self-help”, del fare da sé, trasformava gli immigrati in persone entusiaste e produttive, capaci di edificare dal nulla, nelle terre selvagge, la più grande e ricca nazione della storia, l’ideologia socialista e multiculturalista trasforma gli immigrati in astiosi e risentiti odiatori della società che li mantiene» (G. Piombini).

Tuttavia, a me sembra che la tesi sopra esposta (secondo la quale l’immigrazione è un problema prodotto dallo stato e quindi la sua soluzione di lungo periodo vada necessariamente ricercata non solo fuori dallo stato, ma contro lo stato – tesi che a me sembra logica, e quindi scientifica) sia assente da alcune di quelle reazioni emotive di soddisfazione nei confronti delle nuove politiche restrittive sull’immigrazione. In alcune di quelle pur comprensibili reazioni io non riesco a percepire alcuno schifo per una “soluzione” statalista che nel breve termine può forse arginare parzialmente il problema ma che nel lungo termine, consolidando il potere e l’arbitrarietà dello stato, non può che peggiorarlo. Solo in alcuni casi, per esempio nel citato articolo di Guglielmo, riesco a vedere almeno un riferimento a soluzioni di lungo periodo. Non di rado riesco a vedere, nei confronti della soluzione statalista di breve periodo, una soddisfazione e basta; (come se qualcuno traesse soddisfazione da un antidolorifico scordandosi il problema sottostante che causa il dolore e che nel lungo periodo è peggiorato dall’antidolorifico stesso).

Naturalmente non è facile trovare soluzioni di lungo periodo al problema dell’immigrazione (cioè eliminare la proprietà ‘pubblica’: il “problema sottostante”). Questa difficoltà, tuttavia, non giustifica, a mio modo di vedere, alcuna rinuncia. Bitcoin è l’esempio di come il libero mercato può sorprenderci nel trovare, nonostante la crescente e internazionalmente coordinata aggressione statale, una soluzione efficace di lungo periodo a un problema creato dallo stato e che, nel modo di pensare costruttivista, può essere risolto solo eliminando lo stato (quindi apparentemente non può essere risolto).

È vero che la frammentazione dello stato in stati più piccoli potrebbe essere un passo avanti. (Tale frammentazione, per diversi motivi che qui non stiamo a discutere, è sempre e comunque una cosa auspicabile in sé anche se non sempre è cosa facile da realizzare, specie negli stati in cui la libertà è calpestata in modo particolarmente pesante – pensiamo al recente caso della Catalogna). Tuttavia, il problema di lungo termine rimane sempre quello della proprietà ‘pubblica’; e la soluzione di lungo termine a un problema creato dallo stato rimane sempre da cercare al di fuori dello stato (non attraverso lo stato, anche se più piccolo). In particolare, come già accennato, tale soluzione di lungo periodo può essere trovata solo nella difesa assoluta e coerente della proprietà privata.

Ora, frasi come “padroni a casa nostra” o “fuori da casa nostra”, che a volte sento associate alle comprensibili reazioni di soddisfazione nei confronti delle nuove politiche restrittive sull’immigrazione e che fanno riferimento a confini geografici invece che a muri di immobili o recinti di terreni di cui si è effettivamente proprietari, mi danno l’idea che la libertà stia perdendo amici, non acquistandone. Queste frasi infatti non solo rievocano atteggiamenti collettivisti e statalisti ma esprimono una completa distorsione della realtà (in particolare, la distorsione della realtà voluta da chi controlla lo stato). Se lo stato non siamo “noi” allora i confini dello stato non sono casa “nostra”. La proprietà di Piazza Santa Croce a Firenze non è degli “italiani” (concetto privo di senso storico); né del “popolo” (concetto privo di senso logico); né di coloro (“italiani”, fiorentini, o stranieri) a cui sono stati o saranno estorti beni di loro proprietà per la sua costruzione e manutenzione; né di coloro che sono residenti in quella piazza. La proprietà di Piazza Santa Croce a Firenze è di quei particolari burocrati che, in nome del “bene comune” da loro arbitrariamente stabilito (e/o in nome della “democrazia”), possono arbitrariamente chiuderla al pubblico per farci aver luogo uno spettacolo di Roberto Benigni, per dire.

Più in generale, la proprietà di un bene è di chi ha la possibilità di disporne. Naturalmente, la proprietà può essere legittima (se è il risultato di libero scambio) o illegittima (se è il risultato di aggressione, peggio ancora se legale). In nessun caso e in nessun modo, tuttavia, la proprietà illegittima da parte di alcuni burocrati che dispongono di beni situati in una determinata area può essere, allo stesso tempo e in qualche misura, anche proprietà legittima di un gruppo più o meno arbitrariamente selezionato di privati. L’illusione che questa “coesistenza di proprietà” fra stato e privati possa esserci è creata da chi controlla il primo al fine di far sentire “proprietari” coloro da cui succhia risorse e che mantiene in uno stato di soggezione.

In chiusura, una breve nota sull’ostilità nei confronti di particolari collettività di immigrati, per esempio nei confronti di persone che aderiscono a religioni che professano la discriminazione e la violenza nei confronti del diverso. Ora, la mia ignoranza in fatto di religioni non conosce limiti, con un’unica eccezione: lo statalismo. Questa è una religione che, come e peggio di altre, professa la discriminazione e la violenza nei confronti del diverso. Ed è la religione che ha fatto di gran lunga il maggior numero di morti (su una scala talmente maggiore delle altre che non c’è quasi nemmeno bisogno di avere statistiche alla mano per sostenerlo). Molte delle persone a cui voglio un gran bene (e che su altri piani da quello morale stimo) professano questa religione, il più delle volte in modo chiuso e fanatico. Questo non mi impedisce di voler loro bene: o meglio, di voler bene alla parte di loro che non è stata corrotta dallo statalismo. Questo per dire che, almeno nella mia personale esperienza, il fatto che una persona aderisca a una religione che professa la discriminazione e la violenza nei confronti del diverso non è di per sé motivo sufficiente per non avere rapporti con lei (se lo fosse, non avrei rapporti umani con nessuno al di fuori della ristrettissima cerchia dei libertari: quindi forse questa mia tolleranza deriva da un istinto di sopravvivenza piuttosto che da ragioni morali). In ogni caso, fra un musulmano che volesse “islamizzare l’Italia” e un politico che volesse introdurre un “reddito di cittadinanza” io non vedo significative differenze. Disprezzo l’aggressione e la distruzione barbarica di valore economico indipendentemente dai confini geografici dei paesi di origine delle persone che la compiono o la supportano, o dal tipo di religione che la professa. L’amico della libertà che, nei confronti dell’immigrato musulmano (per esempio) ha un’ostilità maggiore o diversa di quella che ha nei confronti del connazionale statalista, io confesso di non riuscire a capirlo; ma sono disponibile ad ascoltarlo.

 

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