La libertà e lo “stato minimo”

AURELIO MUSTACCIUOLI, GIOVANNI BIRINDELLI, 18.7.2017

Breve scambio di riflessioni sulla possibilità dello “stato minimo” e sulla sua compatibilità con la libertà

AURELIO MUSTACCIUOLI

Un amico mi ha fatto notare che non ci sono esempi di società anarco-capitaliste, organizzate senza una struttura statale. Con onestà devo dire che non so se una tale società possa mai affermarsi.

Sembra quasi quello che in matematica è un punto di equilibrio instabile, le forze che si generano appena ti sposti di poco ti allontanano da esso. Al contrario, le ideologie collettiviste sembrano esprimere un punto di equilibrio stabile, le forze che si generano ti riportano sempre lì.

Quello che so per certo è che i valori alla base dell’anarco-capitalismo (libertà individuale, proprietà privata, non aggressione e libero mercato) creano le condizioni per la pace e lo sviluppo, quelli alla base del socialismo/comunismo e in generale di tutte le ideologie collettiviste determinano (lo dice convincentemente la prasseologia misesiana e la storia dell’umanità lo ha constatato) distruzione di ricchezza, ingiustizia sociale e alla fine, guerra.

Quindi va bene vivere in uno stato, purché le sue funzioni siano le minime necessarie. De Jasay dice che uno stato tende sempre inevitabilmente ad espandersi. Un modo per limitare questo fenomeno è che i valori di base su cui si fonda la nostra etica siano libertari.
E’ questo, in ultima analisi, il sistema di incentivi che può contenere il mostro. Se non amiamo la libertà e non educhiamo i nostri figli alla libertà, saremo sempre schiavi di qualcuno

 

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GIOVANNI BIRINDELLI

Caro Aurelio,

condivido gli ideali che stanno alla base di questo tuo post ma non ne condivido l’approccio strategico.

Sul piano pratico, quello del libertarismo non è un problema di statica, ma di dinamica. Non è un problema di “punti di equilibrio” (o di “end-states”) ma di processo.

Come le stelle fisse, apparentemente irraggiungibili, il libertarismo dimostra in modo scientifico la direzione di marcia: quale è il Nord. Anche se avessimo la certezza che quelle stelle sono irraggiungibili, questo fatto sarebbe abbastanza irrilevante: non è che il Nord smette di essere il Nord se le stelle che lo indicano non possono essere raggiunte.

Finché non venissero raggiunte, la funzione di quelle stelle è indicare una direzione di marcia per poter avanzare concretamente, ciascuno secondo le proprie possibilità e preferenze, in quella direzione, scoprendo via via le strategie che si ritengono più efficaci e compatibili, oltre che con l’ideale di libertà, anche con la propria individualità.

Quelle stelle sembrano irraggiungibili solo se si ragiona secondo gli schemi collettivisti, cioè se le si vogliono raggiungere “tutte insieme, allo stesso momento (subito), per tutti”. In realtà, “a pezzi”, una per una e piano piano, esse possono essere raggiunte: pensiamo a bitcoin, forse la più grande e la più lontana di quelle stelle che oggi abbiamo raggiunto: la difesa pacifica del principio di non aggressione nel campo del denaro. Ma anche una qualsiasi transazione a nero è una piccola (e vicina) stella raggiunta.

Quando si accetta lo stato, magari “minimo”, e si dice che “va bene”, allora si accettano i suoi privilegi (anche se in misura inizialmente contenuta) e quindi il suo intero paradigma (la cui colonna portante è l’idea astratta di ‘legge’ che va sotto il nome di “positivismo giuridico”: la ‘legge’ intesa come strumento di potere politico arbitrario). Ed è quel paradigma che porta lo stato necessariamente a diventare massimo. In una prospettiva dinamica, che è sempre quella dei processi sociali ed economici, lo “stato minimo” non esiste.

Accettare lo stato (di qualsiasi dimensione) significa rinunciare alla libertà perfino come idea, allo stesso modo in cui accettare un tumore significa accettare la morte. Significa privare quelle stelle della loro funzione primaria: offuscarle, perdere di vista in Nord.

Si possono fare passi avanti (anche solo modesti) nella direzione della libertà solo difendendola nel modo più puro ed estremo. Questa difesa può essere fatta nonostante lo stato e quindi in una situazione in cui c’è lo stato (vedi bitcoin), allo stesso modo in cui si può lottare contro un tumore in presenza di quel tumore. Tuttavia, a mio parere, quando accettiamo lo stato, quando diciamo che il tumore “va bene”, allora non possiamo che allontanarci in modo sempre più accelerato dalla libertà.

Un saluto,

Giovanni

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AURELIO MUSTACCIUOLI

Caro Giovanni Birindelli apprezzo molto il tuo commento e mi permetto una breve risposta per chiarire il mio pensiero.

Io mi considero anarco-capitalista perchè credo che l’anarco-capitalismo sia un costrutto teorico coerente che assicura benessere, sviluppo e pace sociale e quindi il punto di arrivo del liberale che ragiona con la sua testa, privilegia il pensiero razionale e non accetta compromessi.
Tale costrutto non prevede lo stato, perché lo stato viola alcuni dei pilastri alla sua base.
Penso però anche, come Rothbard, che per mezzo della ragione possa essere stabilita un’etica obiettiva, e pertanto che il costrutto anarco capitalista debba affondare la sua legittimità su un’etica della libertà, edificata su valori non negoziabili.
Per usare la tua metafora, senza quei valori, c’è la stella polare ma non c’è la volontà di andare a nord.

Credo pertanto che la diatriba intellettuale tra anarco-capitalisti fautori di una società senza stato e miniarchici che “teorizzano” uno stato minimo, non sia corretta. Se sei libertario, non puoi teorizzare uno stato minimo. Aborro pertanto qualsiasi impersonificazione dello stato e assoluzione del suo operato in quanto garante del “bene comune”. Lo stato non siamo “noi”, sono “loro” e “loro” non sono nostri amici.

Quando rifletto sul fatto che non esistano società anarco-capitaliste, nè siano esistite nella storia, prendo atto della difficoltà di raggiungere tale assetto sociale che tuttavia porterebbe enormi benefici alla società stessa.
Usando la metafora, forse un po’ forzata, del punto di equilibrio, non volevo dire che gli assetti sociali ed economici sono statici, al contrario convengo con te che sono dinamici (molto bello a tal proposito il libro “La teoria dell’efficienza dinamica” di Huerta de Soto), tuttavia alcuni assetti, nel loro divenire, sono più probabili di altri.
L’assetto sociale che prevede lo stato è più probabile di un assetto che non lo prevede. E’ un fatto. Anche il numero degli stati nel mondo ha una sua maggiore o minore probabilità di realizzarsi, nè tantissimi, nè uno solo (chi ha voluto nella storia conquistare il mondo, prima o poi è stato fermato, e grossi stati sono collassati in unità più piccole, ma mai in nessuna unità). Che lo stato, specie se grande, sia pericoloso, risulta poi evidente anche dalla modalità in cui i conflitti tra stati spesso vengono risolti; quanto maggiori sono le dimensioni dello stato, tanto maggiori saranno gli esiti nefasti in caso di conflitti armati tra stati. E la storia del 900 ha dimostrato che tali esiti nefasti non sono un disincentivo sufficiente alla loro realizzazione.

Per queste ragioni, come te, non sono tra chi teorizza la bontà dello stato minimo. Perchè è vero che se si ammette lo stato, esso inevitabilmente si espanderà.
E sono totalmente allineato con te quando dici che si può curare il cancro pur avendolo. E noi, aimè l’abbiamo.
Penso però con pragmatismo che, nella malattia, lo stato limitato è meglio dello stato senza limiti. E lo stato piccolo è meglio dello stato grande.

Quanto alla strategia per “andare a nord”, cosa che abbiamo constatato non essere facile (si devia infatti spesso verso est e verso ovest), qui sì che c’è ancora molto da dire.

La tecnologia sicuramente può essere una soluzione, nel momento in cui consente la realizzazione di un sistema di incentivi coerenti con l’obiettivo che si vuole raggiungere.
Ma anche il miglior sistema di incentivi fallisce se non c’è condivisione sul valore dei fini, nel nostro caso se la libertà nella sua essenza non è più percepita come un bene desiderabile.

Un caro saluto anche a te.

 

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GIOVANNI BIRINDELLI

Caro Aurelio,

grazie per la riflessione.

Come ti scrivevo, so che condividiamo lo stesso sistema di riferimento.

Tu scrivi che “L’assetto sociale che prevede lo stato è più probabile di un assetto che non lo prevede” e “con pragmatismo” pensi che “lo stato limitato sia meglio dello stato senza limiti”.

Un paio di osservazioni:

1. Nel mio commento ho cercato di spiegarti perché, dal mio punto di vista, nel campo della libertà, e in quello correlato dell’economia, non ha molto senso parlare di “assetti” sociali ma piuttosto di “processi” sociali.

2. Lo “stato limitato” è un’impossibilità logica: se esiste lo stato, allora esiste la ‘legge’ positiva. E la ‘legge’ positiva (quella che rende possibile che lo stato abbia e possa concedere alcuni privilegi) rende di per sé illimitato il potere di chi lo controlla. Nel tempo, tale potere illimitato tende necessariamente a produrre lo stato massimo (come è sempre avvenuto e continua ovviamente ad accadere).

3. Fino a pochi anni fa, tu avresti potuto sostenere allo stesso modo che “L’assetto sociale che prevede il denaro di stato è più probabile di un assetto che non lo prevede”. Poi saresti stato sorpreso da bitcoin.

4. Dato che siamo in vena di metafore astronomiche, bitcoin è come un “wormhole” (un tunnel spazio-temporale, o ponte di Einstein-Rosen: viene descritto nel film “Interstellar”) che porta verso un’altra galassia, diversa da quella statalista. Lo straordinario successo di bitcoin, per farla breve, sembra suggerire che la strada da percorrere non sia quella di combattere lo stato nella sua galassia, ma lasciarlo imputridire lì mentre, pezzo per pezzo, piano piano, si spostano risorse in quell’altra galassia (un sentiero analogo a quello che ha funzionato con bitcoin nel campo del denaro può funzionare anche in altri settori; e io credo perfino nel campo della legislazione).

5. Sono fortemente in disaccordo con la tua tesi secondo cui “il migliore sistema di incentivi fallisce se non c’è condivisione sul valore dei fini”: non solo su un piano teorico (ognuno hai i propri di fini e, quali che siano, la libertà è la precondizione per raggiungerli) ma anche e soprattutto su un piano strategico: una delle ragioni del successo di bitcoin è anche il fatto che, in superficie, è ideologicamente neutro, cioè che ha creato una struttura di incentivi che prescinde completamente dalle idee e dai valori di ciascuno. Se bitcoin in superficie non fosse stato ideologicamente neutro (e quindi se fosse stato usato solo da chi ne conosceva e condivideva la scienza morale ed economica che vi sta alla base), sarebbe rimasto un giochetto in mano ai quattro gatti libertari e avrebbe fallito subito. Quello che tu scrivi sarebbe vero solo se si volesse riformare (o perfino abolire) lo stato in modo “tradizionale” (costruttivista), nella sua stessa galassia, il che mi pare una pura fantasia: la difesa della libertà implica una rivoluzione di paradigma mentale e solo insignificanti minoranze hanno (o avranno) la possibilità o il coraggio di affrontarla individualmente.

In sostanza, mi sembra che condividiamo simili idee di partenza ma un approccio strategico diverso. Questo è un bene: mentre infatti di idee scientificamente coerenti di libertà o di cosa è il valore economico ce ne può essere una sola e si può stabilire solo a priori, di strategie per andare da A a B ce ne possono essere infinite e quale è la più efficace si può stabilire solo a posteriori.

Bitcoin, a oggi, mostra che la strategia più efficace sembra essere quella che può essere riassunta nei seguenti punti:

a. neutralità ideologica di superficie e ideologia pura all’interno, nelle ragioni per cui è stato inventato e nel modo in cui funziona (ideologia nel senso di difesa della libertà e della scienza economica in forma pura e assoluta, senza compromessi o “equilibri al ribasso”);
b. approccio parallelo (non sostituire il sistema statalista ma affiancarlo in modo non censurabile e lasciarlo diventare “obsoleto” – Fuller);
c. non censurabilità (appunto);
d. privacy (aspetto, questo, da migliorare).

Un saluto,

Giovanni

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