Huerta de Soto: come azzerare il debito pubblico (Parte I)

GIOVANNI BIRINDELLI, 3.12.2013

(Original publication: Mises Italia)

Prendo spunto da un recente editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera per illustrare una particolare proposta per la riduzione del debito pubblico: quella avanzata dal Prof. Huerta de Soto. L’articolo di Alesina e Giavazzi, trattandosi della solita solfa statalista, non meriterebbe nemmeno la porzione di foglio di carta su cui viene letto: la ragione per cui prendo spunto da quell’articolo è che rappresenta perfettamente il non-pensiero di quella parte di statalisti che si ritengono o addirittura vengono ritenuti “liberali” in virtù del fatto che sono a favore delle “privatizzazioni”. La proposta di Huerta de Soto non è immune da possibili critiche, ma aiuta a capire cosa significa pensare in modo economico al di fuori dei paletti intellettuali imposti dal potere politico (in altre parole, cosa significa non essere megafoni del regime); cosa significa ragionare sulle cause strutturali dei problemi e non sui loro effetti; e infine cosa significa, in questo deserto intellettuale delle cosiddette élites, avere idee. Per questo, oltre che per il fatto che nell’insieme la ritengo una buona proposta (anche se migliorabile), penso che possa essere utile ricordarla e discuterla.

1. La solita solfa statalista

Alesina e Giavazzi iniziano il loro articolo ricordando che il debito pubblico italiano, che alla fine del 2013 raggiungerà il 133% del Pil, è aumentato (sempre in rapporto al Pil) del 30% negli ultimi dieci anni. Questo dato deve essere letto pensando al fatto che questi ultimi dieci anni sono stati caratterizzati non solo da un livello e da un tipo di pressione fiscale sempre più esorbitante (e, anche per questo, da una crescita praticamente inesistente quando non da decrescita) ma inoltre da tassi d’interesse straordinariamente e (anche se questo i due giornalisti non lo dicono) artificialmente bassi. Dopo questa doverosa premessa, essi affermano che esistono solo due modi per ridurre il debito: l’imposta patrimoniale e le “privatizzazioni” e usano il resto dell’articolo per elogiare queste ultime.

Intanto, un paio puntualizzazioni. In primo luogo, i due giornalisti parlano di imposta patrimoniale come se questa adesso non ci fosse, ma di imposte patrimoniali ne abbiamo già varie: dalle imposte sulla casa alle imposte di bollo sugli investimenti finanziari. Quella a cui loro si riferiscono è un’imposta patrimoniale aggiuntiva “una tantum” di proporzioni straordinariamente alte. Tuttavia, a parte il fatto che, come purtroppo sappiamo e non abbiamo ancora imparato, “non esiste nulla di più permanente di un programma temporaneo del governo” [1] (almeno su questo Milton Friedman aveva ragione), la differenza sarebbe di tipo quantitativo, non qualitativo. Inoltre, come sanno coloro che coerentemente vedono l’economia nel suo complesso come la scienza che studia l’azione umana, non c’è differenza sostanziale fra imposte patrimoniali e imposte sul reddito in quanto il patrimonio produce reddito. Nelle parole di Pascal Salin, “un economista sa bene che c’è equivalenza tra reddito e capitale. Il reddito, infatti, non è altro che quello che il capitale rende per periodo … Il capitale è la fonte del reddito, e inoltre il suo valore viene calcolato a partire dai flussi di reddito che permette di ottenere nel tempo. Questo perché non c’è reddito senza capitale. … Da questa assoluta equivalenza fra capitale e reddito deriva che è indifferente tassare l’uno o l’altro, a condizione che entrambi vengano colpiti correttamente” [2]. Quindi la distinzione fra “tassa patrimoniale” e “tassa sul reddito” non è altro che la solita trovata mediatica a cui chi detiene il potere politico (con l’aiuto della folta schiera di “intellettuali” al suo servizio) ricorre per giustificare un saccheggio sempre maggiore della proprietà da parte della macchina statale.

Premesso questo, il primo elemento che salta subito agli occhi leggendo articoli come quello di Alesina e Giavazzi è la cura con la quale viene evitato un qualsiasi accenno alle cause strutturali della continua crescita del debito e quindi delle dimensioni e delle funzioni dello stato. Non un cenno viene fatto ai privilegi della manipolazione monetaria e del credito (corso forzoso, denaro fiat, riserva frazionaria, stampa di moneta e fissazione arbitraria dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali); a quali debbano essere i limiti di principio alle funzioni dello stato; alla sostituzione della Legge (il limite al potere) con la “legge” (lo strumento di potere) [3] e quindi alla sostituzione della legittimità (il rispetto della prima) con la legalità (il rispetto della seconda). Non una parola viene spesa per rispondere alla domanda: cosa accadrebbe dopo? Una volta ridotto (ammettiamo pure) il debito (e il Pil) con un’ulteriore imposta patrimoniale o il solo debito con le “privatizzazioni” (che gli stessi autori sostengono che anche nel migliore e più irrealistico dei casi non sarebbero nemmeno lontanamente sufficienti a portare il rapporto debito/Pil sotto il 100%), cosa impedirebbe al debito di tornare non solo a crescere, ma a crescere più velocemente di prima? Silenzio.

Il secondo elemento che salta agli occhi è l’affermazione che esisterebbero solo due modi per ridurre il debito: appunto un’ulteriore imposta patrimoniale (“ulteriore” rispetto a quelle già esistenti e a quella sul reddito), che avrebbe effetti economici sempre più depressivi, e le “privatizzazioni” che (dove questo termine non significasse rinchiudere lo stato all’interno della gabbia costituita dall’unica funzione che è compatibile con una società imperfettamente libera e prospera: la difesa della sovranità della Legge) avrebbero sul debito un impatto simile a quello di una pistola ad acqua su un treno in corsa. Se davvero questi fossero i due unici modi per ridurre il debito pubblico quest’ultimo non solo non potrebbe essere ridotto, ma non potrebbe che continuare a crescere. Per fortuna non è così: anche senza considerare il default esplicito, totale o parziale (opzione del tutto rispettabile* anche se con implicazioni complesse), esistono altri modi per ridurre il debito. Uno di questi è appunto quello proposto dal Professor de Soto che adesso passo a discutere.

2. La proposta del Prof. Huerta De Soto

Le premesse alla proposta di de Soto sono note. In estrema sintesi: attraverso i privilegi della manipolazione monetaria e del credito (la quale, non scordiamocelo mai, è resa possibile dal fatto che la “legge” è stata sostituita alla Legge [4]), lo stato e il sistema bancario riescono a creare legalmente e illegittimamente fiumi di “denaro” fiat dal nulla. Questo “denaro” fiat è quello che consente la continua espansione dello stato e l’espansione del credito al di là dei risparmi disponibili. La continua espansione della macchina statale (e quindi dell’interventismo) e l’espansione artificiale del credito creano distorsioni nella struttura produttiva del sistema economico (e perfino in quella psicologica delle persone) i cui effetti sono l’espropriazione della ricchezza privata e crisi cicliche sempre peggiori seguite, infine, dal collasso. La crisi economica è una cosa positiva in quanto è il tentativo del sistema economico di ripulirsi degli investimenti non economicamente sostenibili prodotti dall’interventismo in generale e dalla manipolazione monetaria e del credito in particolare. Tuttavia, quanto più avanti ci si spinge con la manipolazione monetaria e del credito, tanto più pesante sarà la crisi necessaria per riparare alle conseguenze di questa manipolazione. Il problema oggi è che gli stati e il sistema bancario a essi legato si sono spinti talmente in là con la manipolazione monetaria e del credito che la crisi necessaria per la riparazione ai danni da essi prodotti avrebbe (avrà) dimensioni catastrofiche: una sorta di crisi d’astinenza così forte da uccidere il tossicodipendente. In queste condizioni, in cui l’alternativa sembra essere fra catastrofe e catastrofe, come salvare il drogato e addirittura farlo tornare a essere in forma?

Non certo dandogli sempre più veleno (e cioè imposte, interventismo e manipolazione monetaria e del credito) come si sta facendo adesso; né dandogli da bere un bicchiere d’acqua (le “privatizzazioni” che auspicano Alesina e Giavazzi). Huerta de Soto propone di ridurre il debito in modo significativo (e possibilmente addirittura di azzerarlo) mediante l’abolizione della riserva frazionaria e quindi agendo sulle banche che, mediante questo privilegio, “hanno gradualmente espropriato la ricchezza del resto della società”. [5]

La proposta di de Soto prevede che, per mettere fine a questo privilegio, ogni banca trasferisca (cioè sia obbligata a trasferire) i suoi assets (quelli al di sopra del suo valore netto) a un fondo comune e che, a coloro che detengono conti correnti (o altri conti di deposito, in cui viene mantenuta la disponibilità del denaro depositato), sia data la facoltà di scegliere fra le seguenti due possibilità:

  1. mantenere i conti di deposito. In questo caso come vedremo sarà garantita una riserva del 100%; il che vuol dire che il denaro depositato dovrà essere custodito dalla banca ma non potrà essere da questa prestato ad altri: il che a sua volta significa che il deposito non produrrà un tasso d’interesse contra naturam ma avrà un costo di mercato per il correntista.
  2. sostituire i loro conti di deposito con azioni del fondo comune di cui sopra, ricevendo un numero di azioni in misura proporzionale ai loro depositi. Questo comporterebbe naturalmente a) che il valore nominale di queste azioni non sarebbe garantito: potrebbe aumentare come diminuire e b) che, per le loro esigenze di liquidità, coloro che scelgono questa opzione potrebbero dover vendere parte di queste azioni ed eventualmente depositare la liquidità in conti di deposito.

In questo modo la distinzione fra prestito (in cui uno perde la disponibilità dei propri fondi) e deposito (in cui uno la mantiene) verrebbe ristabilita. È prevedibile che, per ogni banca, una parte di depositi sarebbe convertita in azioni del relativo fondo comune e di conseguenza che un’altra parte non sarebbe convertita. Per quest’ultima parte che non sarebbe convertita rimarrebbe il problema della riserva del 100%: per superare questo problema de Soto suggerisce che la banca centrale stampi (!) la necessaria quantità di moneta fiat e la dia alle banche. Questa stampa di moneta “non sarebbe in nessun modo inflattiva, in quanto l’unico scopo di quest’azione sarebbe quello di coprire i depositi (ed equivalenti) e ogni banca riceverebbe banconote in misura identica ai corrispondenti depositi. In questo modo il requisito di riserva del 100% potrebbe essere stabilito immediatamente e alle banche dovrebbe essere impedito di generare ulteriori prestiti sulla base dei depositi” [6] cioè di creare denaro dal nulla prestando ad altri i soldi depositati.

De Soto mette in evidenza che sia Hart che Rothbard (!) hanno suggerito che queste banconote stampate dalla banca centrale venissero regalate alle banche e per fortuna riconosce che questo sarebbe un boccone troppo amaro da buttare giù in quanto, come dicevamo, se c’è qualcuno che ha tratto profitto illegittimo dal privilegio della riserva frazionaria queste sono proprio le banche. Poiché regalare questo “denaro” alle banche “permetterebbe loro di mantenere gli assets che hanno storicamente espropriato alla società” [7], de Soto suggerisce che questi assets (o attività) delle banche siano usati per altri scopi: primo fra tutti l’abbattimento del debito pubblico. In particolare, de Soto propone che i titoli del debito pubblico del paese siano scambiati con le azioni dei fondi comuni (quelli in cui sono confluiti gli assets delle banche) rimaste non allocate dopo la riforma: “L’idea è piuttosto semplice: i detentori di titoli di stato riceverebbero, in cambio di questi, un corrispondente ammontare di azioni dei fondi comuni in cui sarebbero confluiti gli assets del sistema bancario. Questa proposta eliminerebbe un gran numero (se non la totalità) delle obbligazioni emesse dal governo, il che beneficerebbe tutti i cittadini in quanto a partire da quel momento non dovrebbero più pagare tasse per finanziare gli interessi sul debito. Inoltre [al di là delle banche, che vedrebbero i titoli di stato in loro possesso (oggi una quantità enorme) semplicemente cancellati [8], n.d.r.] gli attuali detentori dei titoli di stato non subirebbero conseguenze negative” [9] [e, anche se le subissero, ciò non sarebbe un dramma anche perché queste sarebbero molto minori di quelle che essi dovevano sapere essere quelle più probabili quando hanno investito sul debito di paesi implicitamente in bancarotta, n.d.r.].

È fondamentale mettere in evidenza che questa proposta è solo uno stadio intermedio di una proposta più ampia in cinque fasi che porta all’abolizione del corso forzoso, delle banche centrali, della manipolazione monetaria e del credito in ogni sua forma e, più in generale, al ristabilimento della libertà e della legittimità in ambito monetario.

NOTE:

(*) si veda per esempio l’argomentazione di Murray Rothbard a favore del ripudio del debito pubblico (nota aggiunta successivamente alla pubblicazione originale)

[1] Citato in Facco L., 2013, Il Micropensiero Libertario (Libreria San Giorgio, Milano).
[2] Salin P., 1997 [1985], La tirannia fiscale (Liberilibri, Macerata), p. 70, corsivo nel teso originale.
[3] Con la parola Legge (“L” maiuscola) intendo il principio astratto frutto di uno spontaneo processo evolutivo di selezione culturale di usi e convenzioni di successo: la regola generale di comportamento individuale; la pressa che comprime le funzioni prima, e le dimensioni poi, dello stato. Viceversa, con la parola “legge” (fra virgolette e con la “l” minuscola) intendo il provvedimento particolare deciso dall’autorità: la decisione arbitraria di chi detiene il potere politico; la molla che espande le funzioni prima, e le dimensioni poi, dello stato.
[4] Infatti, la riserva frazionaria non è altro che appropriazione indebita e la stampa di moneta non è altro che contraffazione.
[5] Huerta de Soto J., 2009 [2006], Money, Bank Credit and Economic Cycles (Mises Institute, Auburn AL), p. 794. Traduzione mia.
[6] Ibid., pp. 793-794, corsivo nel testo originale. Traduzione mia.
[7] Ibid., p. 795.
[8] Nel seguente articolo (nota 31: link) Phillip Bagus giustamente rileva un problema in questo punto: i titoli del debito pubblico in possesso delle banche fanno parte degli assets che confluirebbero nei fondi comuni, quindi cancellarli significherebbe diminuire il valore degli assets e quindi delle azioni in possesso dei titolari dei fondi comuni (i correntisti che hanno sostituito i depositi con quelle azioni). Il problema è tuttavia facilmente superabile se, nella costituzione dei fondi comuni, si tenesse conto del fatto che tutti i titoli del debito pubblico in possesso delle banche verrebbero cancellati.
[9] Ibid., p. 797.

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