Statali, diritto di voto e conflitto d’interessi

GIOVANNI BIRINDELLI, 28 March 2012

(original publication: L’Indipendenza)

Mi ricollego all’articolo di Leonardo Facco sugli statali per discutere alcune implicazioni politiche del problema. Il voto di uno statale e, più in generale, di chiunque a qualsiasi titolo riceva direttamente denaro “pubblico”, e cioè denaro privato sottratto ai legittimi proprietari dallo Stato con l’uso della forza, non ha la stessa valenza del voto di una persona che non riceve denaro “pubblico”.
Nel primo caso, infatti, a differenza di quanto accade nel secondo, c’è un conflitto d’interessi. Se una coalizione politica si candidasse alle elezioni con un programma di privatizzazioni, il voto dello statale potrebbe esprimere non la sua opinione sul programma di quella coalizione ma il suo interesse particolare e immediato. Per esempio, se quella coalizione proponesse la privatizzazione delle Poste Italiane l’impiegato delle poste (e più in generale una buona parte degli impiegati pubblici, in quanto se venissero privatizzate le poste potrebbero essere privatizzate anche altre società pubbliche) sarebbe nella posizione di poter esprimere, con il suo voto, il suo interesse di non rischiare di essere licenziato. L’impiegato di Prada, invece, non potrebbe essere in questa posizione.
In altre parole, le forze politiche che propongono un allargamento dello Stato o anche il mantenimento delle sue attuali esorbitanti dimensioni e funzioni, sono nella posizione di proporre, per esempio nei loro manifesti elettorali, un voto di scambio legalizzato. Viceversa, le forze politiche che propongono una riduzione delle dimensioni e delle funzioni dello Stato non sono in questa posizione. Questa è una delle ragioni principali per cui oggi in occidente è così difficile ridurre le dimensioni del Leviatano e anzi invariabilmente queste tendono a diventare sempre maggiori. I sistemi politici attuali (erroneamente chiamati “democrazie”) sono così diventati una specie di mercato delle vacche e lo Stato è diventato, nelle parole di Bastiat, “la grande finzione nella quale tutti si sforzano di vivere alle spalle di tutti gli altri”.
C’è una certa rassegnazione a vedere questo problema come inscindibilmente legato alla democrazia. Perfino coloro che sono in grado di vederlo e che non sono parassiti che vivono di denaro “pubblico” alzano spesso le braccia citando Churchill: “La democrazia è il peggiore dei sistemi politici, fatta eccezione per tutti gli altri”. Non è vero. Questo problema può essere risolto: il motore che alimenta il circolo vizioso che produce il continuo e progressivo allargamento dello Stato (e quindi la continua e progressiva riduzione della libertà) può essere trasformato in un motore che alimenta il circolo virtuoso che produce la continua e progressiva riduzione dello Stato, e quindi il continuo e progressivo aumento della libertà.
La risoluzione di questo problema richiede, in ultima istanza, un cambiamento di idea astratta di legge e quindi la distinzione fra leggi e misure. Le leggi sono i principi generali e astratti, cioè regole di comportamento valide per tutti, Stato per primo, ovunque e sempre allo stesso modo (un principio è per esempio quello in base al quale non si deve rubare, ergo non si deve aggredire la persona e la proprietà altrui). Questi principi, che, come la lingua italiana, per esempio, sono il risultato di un processo spontaneo e disperso di selezione culturale di usi e convenzioni, sono indipendenti dalla volontà dell’autorità legislativa che può solo scoprirli, custodirli e difenderli ma non può “farli” allo stesso modo in cui l’Accademia della Crusca non può “fare” la lingua italiana e le sue regole ma solo custodirle.
Viceversa le misure sono il provvedimento particolare (come ad esempio la manovra fiscale) che esiste solo in quanto espressione della volontà di chi detiene il potere politico e che questo può fare allo stesso modo in cui un costruttore può fare un palazzo. Le leggi, che non hanno uno scopo particolare, sono un limite al potere. Le misure, che invece hanno uno scopo particolare, sono uno strumento di potere.
Cosa c’entra tutto questo con il problema del conflitto d’interessi dello statale-elettore da cui eravamo partiti?
C’entra moltissimo, perché laddove le leggi e le misure sono confuse le une con le altre e quindi chiamate allo stesso modo (e cioè “leggi”, basti pensare alla cosiddetta “legge finanziaria”) e affidate alla stessa istituzione (il parlamento), laddove cioè il potere legislativo è confuso con quello politico e quindi laddove c’è il conflitto d’interessi del parlamento, il conflitto d’interessi dello statale non può essere risolto. Più precisamente, esso può essere risolto solo privando del diritto di voto lo statale, e più in generale chiunque riceva a qualsiasi titolo denaro “pubblico”, ma questo avrebbe un costo in termini democratici troppo elevato: sarebbe equivalente a uccidere il paziente per eliminare il tumore. Tuttavia, come mette in evidenza F. V. Hayek nella sua proposta costituzionale, laddove le leggi sono distinte dalle misure e quindi il potere legislativo è separato da quello politico, il problema del conflitto d’interessi degli elettori che ricevono denaro “pubblico” può essere risolto senza nessun costo in termini democratici ma anzi con un grande guadagno su questo fronte.
Nella sua proposta, infatti, Hayek prevede due assemblee: l’assemblea legislativa (alla quale i partiti politici e chiunque sia mai appartenuto a un partito politico non potrebbero avere accesso) che si occuperebbe di leggi e quindi che deterrebbe il potere legislativo; e poi l’assemblea governativa che, subordinata alla prima, si interfaccerebbe col governo e si occuperebbe di misure, e cioè, nel rispetto della legge difesa dalla prima assemblea, si occuperebbe (per esempio dando la fiducia al governo e approvando i suoi provvedimenti) delle questioni inerenti l’amministrazione dello Stato. In questa situazione, resa possibile dalla distinzione fra leggi e misure, il problema del conflitto d’interessi degli elettori che ricevono denaro pubblico può essere facilmente risolto privando loro del diritto di voto (per un certo numero di tornate elettorali o per sempre) per la sola assemblea governativa. Evidentemente questo non solo non sarebbe un costo in termini democratici ma anzi un guadagno in quanto, in primo luogo, sarebbe la risoluzione di un conflitto d’interessi e, in secondo luogo, in quanto chi riceve denaro “pubblico” manterrebbe intatto il suo diritto di voto per l’assemblea legislativa che si occupa della difesa dei principi generali e astratti, e cioè della legge intesa come limite al potere e quindi nel suo significato originario.
Con questa soluzione, chi si candida all’assemblea governativa non potrebbe più proporre il voto di scambio con altrettanta facilità di quanto fa oggi in quanto fra i suoi elettori sarebbero esclusi tutti coloro che ricevono o hanno ricevuto denaro “pubblico”: dal presidente della repubblica all’ultimo netturbino, dal parlamentare all’usciere, dall’imprenditore che ha ricevuto un sussidio al disoccupato che ha ricevuto un sussidio di disoccupazione, e così via. Chi si candida all’assemblea governativa potrebbe proporre un voto di scambio a chi non ha ancora ricevuto denaro “pubblico” ma, nel momento in cui lo fa, aggiunge i suoi elettori alla lista di coloro che non potranno votare in futuro.
Nel tempo, quindi, il voto di scambio legalizzato che oggi sta alla base dei nostri processi politici e che è uno dei fattori che stanno alla base della continua espansione dello stato, verrebbe sensibilmente limitato. Esso tuttavia non verrebbe eliminato in quanto il voto di scambio (vedi articolo 18 per esempio) può esserci anche senza denaro “pubblico” ma solo attraverso regolamentazione. In altri termini, sarebbe un sensibile miglioramento della situazione anche se non la cura definitiva.

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